L’articolo di Roberto Segatori sulla condizione sanitaria in Umbria.

Ricordiamo con Segatori che la Sanità è il settore più importante e cospicuo in termini di denaro e potere che lo Stato ha attribuito alle Regioni. E dunque lo scontro tra la presidente Marini e l’Assessore Barberini, terminato con la dimissione di quest’ultimo, è nelle cose della politica.
E diventa quasi ozioso ragionare su chi è conservatore o chi progressista, sul merito delle persone messe a capo delle ASL e delle Aziende, sulla loro appartenenza organica o meno al potere costituito.
Non che non sarebbe auspicabile una massima trasparenza in un settore che riguarda la salute dei cittadini e in un settore dove scorre un fiume di denaro che la politica gestisce.
Ma su questa cosa, come pure su tante altre ci siamo abituati a tollerare inevitabili mancanze, se non addirittura il  malaffare. Dunque augurandosi  che comunque le cose in qualche modo funzionino.
I tempi del ricorso alla magistratura, e poi ai tecnici, e poi all’Europa e l’elenco sarebbe lungo, per accomodare le cose che non vanno, sono passati, con scarsi risultati, se non addirittura fallimentari.
Al momento navighiamo a vista, confidando nello stellone italiota, più che nelle esternazioni mediatiche del nuovo demiurgo, Matteo Renzi.
Nel frattempo ci facciamo coinvolgere sulla disputa riguardo al diritto degli omosessuali di avere figli, come Vendola in questi giorni che ha preso lo sperma del compagno, lo ha messo accanto all’ovulo di una donna, il prodotto è stato allocato nell’utero di questa indonesiana trapiantata per l’occasione in California e ora, si aspetta il lieto evento.
Incredibilmente anche l’ineffabile Boldrini non è apparsa troppa soddisfatta della cosa.
E poi forse domani entreremo in guerra in Libia e Giolitti già freme nella tomba mosso da sacro furore patriottico.
Insomma ci distraggono, mentre la povertà aumenta, il lavoro langue, le multinazionali ci stanno prendendo tutto, un fiume di povera gente invade le nostre città.
Chiudendo la digressione, torniamo all’articolo di Segatori.
Ad un certo punto si dice che ci sono dei reparti di chirurgia in crisi perché sono andati in pensione i primari. Ora se questo è vero, sarebbe di una gravità assoluta: sarebbe veramente la prova del fallimento della politica sanitaria.
La riforma sanitaria in Italia, da Mariotti in poi, fu varata seguendo i principi della gratuità della prestazione, dell’estensione a tutti dei servizi, della centralità della figura del malato.
Era una rivoluzione rispetto al passato, in particolare sostituiva all’equazione malato- medico quella di cittadino-organizzazione sanitaria. Una rivoluzione non da poco ma d’altra parte erano anni di grandi rivolgimenti sociali e in quegli anni 70, noi giovani medici venuti su a studio forsennato e presalario ci abbiamo creduto e facemmo la nostra parte. C’era quel discorso della gerarchia dei baroni, da abbattere; della possibilità di curarsi bene solo se si avevano soldi, da superare; e tutto il resto.
Pensavamo che quella rivoluzione democratica dal basso, non solo in sanità, ci avrebbe fatto entrare in un nuovo secolo dei lumi. E in sanità il superamento del rapporto esclusivo malato- medico era un topos assoluto volto a scardinare la dimensione privata di quel contratto.
La nuova struttura sanitaria che si andava costruendo doveva essere un amalgama di funzioni e persone che ai vari livelli e con la sinergia del loro operare avrebbe garantito la risposta ottimale al cittadino con un problema di salute.
E scomparvero le distinzioni dei medici in assistenti, aiuti, primari per l’unico ruolo del dirigente sanitario, come pure la diversificazione delle figure infermieristiche tutte riassunte in quella dell’infermiere unico. Insomma quando una persona si ammalava, poteva rivolgersi alla struttura che avrebbe messo in campo tutto il necessario in termini di uomini e ausili tecnici.
Rivisitando il monologo di Agrippa di 2500 anni fa, tutti erano essenziali e funzionali e nessuno veramente indispensabile o comunque non vicariabile.
Questi assunti teorici, dovettero scontrarsi con una realtà variegata, mentalità diverse, e dunque calarli nella pratica, fu problematico. C’era un’ala radicale che nella nostra città aveva i volti di Andrea Alesini, Guarnieri, Felici, Anna Maria Paci, Paolo Paolocci, Maiuro, e gli altri raccolti nel gruppo di Medicina Democratica. Anche il sottoscritto e l’amico di allora Silvano Lolli erano vicini a quel gruppo e a quelle idee.
Dall’altra parte non c’era una reazione palese, solo posizioni di rendita abitudinaria, soprattutto di attesa per vedere quanto e dove avrebbe continuato a spirare quel vento.
E con il tempo quel vento si calmò e i vertici amministrativi di derivazione politica della Sanità, dopo un primo momento di adesione, persero di vista il disegno iniziale e, come sempre accade in politica, le mediazioni, gli interessi elettorali, la gestione di quell’immensa quantità di denaro, hanno portato a gestioni di non facile lettura forse riassumibili nel termine di opportunità politiche.
Dunque non credendoci più o non riuscendo si è anche qui navigato a vista con obiettivi più riduttivi. Dalla molteplicità del personale sanitario si sono cooptate professionalità singole, valorizzate con contratti integrativi e nel caso dei primari consentendo la sostanziale trasformazione del reparto in una clinica privata con accessi agevolati per chi passava per gli ambulatori privati o per chi apparteneva alle caste.
In questo modo se da un lato si efficientava la macchina, dall’altro si lasciava arrancare in ritardi nelle prestazioni e disservizi vari.
La complessità strutturale del sistema causato da una miriade di leggi e regolamenti locali, nazionali ed europei hanno trasformato un apparato nato per curare la gente in un moloch di gestione sempre più complessa, nel mentre volgeva al termine la possibilità di governare senza interessarsi delle risorse economiche che comunque per molto tempo lo Stato aveva garantito, sanando i conti “ a piè di lista”. La conseguenza è stata il tentativo di contrarre la spesa, con chiusura degli ospedali, riduzioni del personale, qualità non al top dei materiali.
Bisogna ammettere che laddove non si sono verificati fenomeni di malaffare un merito d’impegno e difficoltà agli amministratori va riconosciuto.
Però se il pensionamento di un primario mette in crisi una struttura, questa cosa è un grido di accusa per chi, dirigenti amministrativi e primari hanno gestito quella struttura. Significa che non si è investito nel gruppo di lavoro cui il primario apparteneva.
Viene da pensare agli infermieri e medici lontani dalla ribalta che comunque e nonostante tutto continuano a mandare la baracca.
E’ che quella buona Sanità che abbiamo avuto sino a qualche lustro fa non c’è più.
Il modello culturale delle cliniche private si è imposto definitivamente anche nel sistema pubblico.