Chiusa la mensa del dopolavoro ferrovieri, scompaiono i simboli del passato, e non comprendiamo quelli del nuovo che avanza.
Il 31 ottobre del 2013, per l’ultima volta, alla mensa del dopolavoro ferrovieri, si è servito il pranzo agli abituali clienti.
Come primo piatto è stato proposto tagliatelle al cinghiale e nonostante la qualità della cucina sia stata sempre ottima, anche come varietà della scelta, quel piatto era inusuale: sapeva di ristorante più che di mensa aziendale.
È stato il saluto del cuoco e degli altri compagni di lavoro, che, da domani, si sarebbero trovati senza lavoro.
E’ una storia come tante altre di chiusura di attività commerciali, così frequenti in questi tempi disperati, con le sequele di difficoltà economiche, crisi personali e familiari e altro di chi si ritrova improvvisamente senza lavoro, con la difficoltà-impossibilità a riciclarsi.
Ma qui c’è anche qualcos’altro, c’è la scomparsa, pezzo dopo pezzo, dell’identità di una città.
Il dopolavoro ferroviario e la mensa che ne era un corollario, esistevano da più di settant’anni, erano tutt’uno con la dimensione di città ferroviaria di Foligno.
La stazione dove tutti i treni facevano sosta diretti a Roma o ad Ancona o a Perugia-Firenze, le grandi officine, appunto il dopolavoro e l’indotto che queste cose creavano.
La mensa era aperta ai ferrovieri della città, e a quelli di passaggio.
Grande afflusso di gente a prezzi ridotti per i ferrovieri, ma comunque bassi anche per i cittadini che da subito cominciarono a frequentarlo.
Aspetto di trattoria e di piccolo ristorante nei primi anni, poi di mensa aziendale sino nei nostri giorni.
Gestori diversi a cominciare da alcuni membri della famiglia di Remo, storico ristoratore della città.
A mangiare al dopolavoro sono andate generazioni di folignati per lo più di classe operaia o proletaria, qualche impiegato, rari professionisti.
Non gli è accaduto, come ad altri luoghi, di diventare di moda ed essere quindi frequentato da intellettuali e personalità della città, è rimasto fedele alla sua vocazione di servizio per i lavoratori e il popolo, sino a oggi, quando è stata decisa la sua chiusura.
Era nell’aria perché Foligno non è più città ferroviaria da tempo.
Ridimensionate le grandi officine, ridotta la centralità del nodo ferroviario folignate, con pericolose ulteriori paventate sottrazioni perugine.
I tempi cambiano e quello che era istituzione, certezza identitaria sino a ieri, oggi scompare.
Tanti esempi si possono fare, il dopolavoro è uno dei tanti.
Nel frattempo ci prepariamo al nuovo con scarsa fiducia, poco entusiasmo, quasi con rassegnazione. E’ il sintoma agonico del collasso della nostra civiltà e in generale di quella occidentale, o solo un momento che prelude a una nuova partenza per futuri straordinari assetti e conquiste?
Non lo sappiamo, ognuno ha una sua opinione, secondo la propria natura, il proprio vissuto, la propria fede.
La città, dopo il terremoto, con i soldi delle nostre tasse e il contributo dello stato e forse anche dell’Europa è stata rifatta bella come forse non è mai stata prima.
Bisogna darne merito ai nostri amministratori che hanno gestito la cosa, ma chi la abita sta meno bene di prima, è più povera, più disperata.
La nuova pavimentazione dell’abitato dentro le mura sta trasformando il centro in un salotto per il piacere dei turisti che vengono per la quintana o per i primi d’Italia e forse per gli immigrati magrebini, slavi e africani che sciamano nelle vie della città, ma le attività produttive sono scomparse e Foligno non è più la città industriale dei decenni passati.
Per intanto al posto dello zuccherificio si costruirà un nuovo megacentro commerciale della Coop; la burocrazia celebra se stessa con il discutibile, costoso, brutto monumento della Protezione civile; la campagna viene saccheggiata da nuove strade e rotonde e case, e la disponibilità abitativa eccede di molto la domanda; un cubo di cemento si erge in mezzo alla campagna urbanizzata proponendo un inedito contenitore della sacralità.
E’ di difficile lettura tutto questo per noi non più giovani, che come tutti i vecchi proviamo dolore nel vedere cambiare e deperire la città che amiamo, forse i nostri occhi non riescono a vedere il bene e il bello in quello che sta sorgendo: è lo strabismo di chi guarda il futuro con occhi rivolti al passato.
Fortunatamente non è così per i giovani che dovranno fare e vivere la nuova città . ci auguriamo che loro non disperdano il patrimonio di memorie e valori nei quali noi ci siamo identificati.
Marcello Paci