imagesimages (1)Introduzione

 

Il problema della terapia di alcuni quadri neurologici che riconoscono come momento eziologico una patologia delle arterie carotidi nel loro tratto extracranico, si è affermato all’attenzione degli studiosi da quando l’arteriografia ( Moniz – 1927 ) ha cominciato a documentare le stenosi carotidee prevalentemente di natura aterosclerotica. Sino a quel momento la clinica e la semeiotica non riuscivano a fornire dati indicativi per una diagnosi precisa e attendibile ( rumori e soffi all’auscultazione, induzione di alterazioni neurologiche alla compressione carotidea, ecc.). Inoltre non potevano offrire informazioni per valutare lo stato di compenso operato dal circolo collaterale e le eventuali concomitanti lesioni delle arterie dell’altro lato. Da qui l’importanza risolutiva nella diagnostica dell’accertamento arteriografico.

La sintomatologia neurologica è la più varia, in una casistica presentata da De Bakey ( 1908-2008 ) si proponeva una classificazione in tre gruppi:

 

 

 

QUADRI CLINICI DA ISCHEMIA CEREBRALE SEC. DE BAKEY

 

 

·   Sintomi ( disturbi della parola, del moto, della sensibilità, della visione)                       da ischemia cerebrale transitoria.  ( TIA)

 

 

·    Sintomi da ictus progressivo

 

 

·    Sintomi da ictus definitivo sin dall’inizio

 

 

 

 

 

 

 

Una lunga esperienza di decenni ha posto il trattamento dell’ischemia cerebrovascolare nei termini di un intervento chirurgico codificato secondo lo schema di Murphey e Miller:

 

Incisione lungo il margine anteriore del muscolo sternocleidomastoideo. Si fa attenzione a non ledere il nervo ipoglosso, quindi si espone il tronco arterioso, e si applica un tourniquet sulla carotide comune ed uno sull’esterna. Prima del clampaggio della carotide interna si può misurare la stump pressure con un ago introdotto nel lume arterioso collegato ad un oscilloscopio.

Quindi clampata l’arteria carotide interna si procede ad arteriotomia ed asportazione in blocco del tessuto ateromasico con l’intima. Successiva sutura dell’arteria o apposizione di patch.

 

Considerazioni preliminari

 

Il sangue arterioso raggiunge l’encefalo attraverso le due arterie carotidi interne e le due arterie vertebrali. Un ampio circolo anastomotico, il circolo di Willis, si trova alla base del cranio e permette degli ampi compensi nelle più varie condizioni fisiologiche e patologiche. L’antica dimostrazione di un’irrorazione omolaterale è a tutt’oggi un’astrazione che non risponde ai dati riportati dalla clinica e dal laboratorio. Invece è ampiamente dimostrato che in condizioni particolari si rendono disponibili altre vie anastomotiche oltre quella principale del circolo di Willis: in particolare tra l’arteria cerebrale media e l’arteria facciale attraverso l’arteria oftalmica, e tra l’arteria cerebrale media e l’arteria mascellare attraverso l’arteria angolare; oltre a delle connessioni dirette intraemisferiche tra i rami arteriosi della carotide interna.

Questa ricca irrorazione arteriosa permette sino ad un certo limite di rendere la pressione e il flusso del sangue nell’encefalo indipendente dalle variazioni sistemiche, purchè queste si mantengano entro i valori di 70-150 mm hg: è attraverso i riflessi del seno carotideo che si riesce a mantenere questa omeostasi. Tale capacità di autoregolazione studiata in particolare da Lasse e Sokoloff si fonda su altri fattori che in una parola potremmo definire: le resistenze vascolari periferiche.

In primo luogo la pressione intracranica attraverso la pressione liquorale che nella norma ha un valore intermedio tra la pressione arteriosa e quella venosa e crea un gradiente pressorio che permette il flusso cerebrale, in secondo luogo il tono e il diametro dei vasi cerebrali che è sotto il duplice controllo nervoso e chimico. Sull’effettiva entità del controllo nervoso non ci sono più dubbi come nel passato; è stato dimostrata, infatti, una ricca innervazione simpatica a partenza dai gangli del simpatico cervicale che segue i vasi nell’encefalo, ed anche un contingente parasimpatico. Sembra però che l’impulso nervoso svolga un ruolo modesto nella regolazione vasale. Più importante il controllo chimico dimostrato dalle ormai classiche esperienze con la per fusione di sangue arterioso reso ricco di anidride carbonica, che portava ad un’imponente vasodilatazione e ad un aumento del flusso di oltre il 75% a normale tensione parziale di ossigeno. Mutando il valore della pressione parziale dell’ossigeno la risposta si sganciava dal gradiente iperbarico e si adeguava maggiormente agli effetti della anossiemia. Più in particolare la risposta dei vasi all’anidride carbonica traduce il ruolo effettivo svolto dai radicali acidi e metabolici nella regolazione del tono vasale che assume pertanto una sua autonomia in relazione alle particolari esigenze metaboliche regionali. Da questo punto di vista è importante ricordare come il cervello dipenda interamente dal glucosio per le sue necessità energetiche. Se noi teniamo presenti le due equazioni che esprimono l’ossidazione del glucosio in presenza o carenza di ossigeno:

 

 

 

 

 

Resa energetica del metabolismo cerebrale del glucosio in aerobiosi o anaerobiosi.

 

 

·       C6 H12 O6      =     6CO2      +  32 legami ad alta energia

                                                 

 

 

·       C6 H12 O6      =     2 C3 H6 O3 + 2 legami ad alta energia    

                                                 

 

 

 

 

 

 

 

Notiamo che nel primo caso per ogni molecola di glucosio si producono 6 molecole di anidride carbonica e 32 molecole di ATP, nel secondo caso per una molecola di ossigeno si producono due molecole di acido lattico e solo due molecole di ATP.

Ci rendiamo dunque conto di come il sistema nervoso possa resistere solo per poco tempo in condizioni di anaerobiosi.

Se si considera poi che sulla via principale del metabolismo glucidico s’innestano altre vie che da metaboliti intermedi portano alla produzione di protidi e lipidi si comprende la dipendenza assoluta del sistema nervoso centrale dal glucosio e dall’ossigeno.

 

 

 

Considerazioni di tecnica anestetica

 

L’anestesia locale e generale

 

La scelta tra anestesia locale e quella generale è stato un problema ampiamente dibattuto e a tutt’oggi esistono fautori autorevoli dell’una e dell’altra tecnica.

Hobson ed altri hanno pubblicato alcuni anni fa la loro esperienza su 232 casi trattati con anestesia locale, l’anno precedente uno studio analogo aveva pubblicato Sublett ed entrambi sottolineano i buoni risultati ottenuti, in virtù della collaborazione offerta dal paziente durante l’intervento, con la continua valutazione clinica dello stato neurologico, evitando l’effetto dei farmaci anestetici.

La tecnica descritta da Moore consiste nell’infiltrazione del plesso cervicale superficiale e profondo con mepivacaina all’1,5% con aggiunta di un’infiltrazione locale del campo operatorio.

Durante l’intervento si fa giungere alle vie aeree del paziente un flusso di ossigeno di 3 litri al minuto.

I fautori dell’anestesia generale fanno notare, nella tecnica locale, i molti fattori che creano un disagio al paziente: in particolare la ventilazione inadeguata e rischio potenziale d’ipossia, e un’esposizione chirurgica non ottimale. Per contro sottolineano la possibilità che offre l’anestesia generale di poter controllare e modificare una molteplicità di parametri: la pressione arteriosa, la ventilazione, la pressione parziale dell’ossigeno e dell’anidride carbonica, il flusso cerebrale, adeguandoli alle necessità del momento.

La tecnica ha subito varianti negli anni in termini di farmaci impiegati: lo schema classico prevedeva una premeditazione leggera con atropina e diazepam, un’induzione con tiopentale, rapida intubazione dopo aver iperventilato con ossigeno e dopo una dose di succinilcolina.

Il mantenimento, ottenuto con una miscela di ossigeno e protossido d’azoto al 50% e alotano in concentrazione dello 0,5-1 %. Per l’induzione e il risveglio e per le fasi d’emergenza si usa un respiratore a circuito semichiuso, durante l’intervento si usa una macchina senza rirespirazione per consentire le misurazioni di flusso cerebrale con la tecnica dello xenon-133.

All’inizio l’accordo sull’utilizzo dell’alotano sembrava generale in relazione alla vasodilatazione con aumento del flusso cerebrale che esso produce e alla diminuzione delle richieste metaboliche da parte del cervello. Comunque erano state fatte esperienze anche con altri anestetici come riportato in uno studio condotto da Heifetz pubblicato nel 1973 nel quale si ponevano l’accento i vantaggi del metossifluorano che permette un mantenimento ad alte pressioni di ossigeno ed evita in presenza di ipercarbia il pericolo di aritmie.

 

IPERCAPNIA,NORNOCAPNIA,IPOCAPNIA.

 

Un altro problema ampiamente dibattuto è l’impiego dell’ipercapnia in questi pazienti.

Il problema si fonda su alcuni presupposti fisiologici: l’anidride carbonica, è stato dimostrato, ha un effetto di vasodilatazione cerebrale e d’aumento del flusso, sembra pertanto logico ipotizzare un suo impiego per ottenere un aumento dell’apporto ematico specie in un intervento in cui il maggior pericolo è l’insufficienza ischemica del cervello.

Senonchè altre ricerche hanno dimostrato che il distretto cerebrale che dipende per il suo apporto ematico da una carotide in parte ostruita, si trova in condizione di acidosi metabolica e conseguentemente i suoi vasi sono di norma massimamente dilatati.

Ancora è stato visto che questa condizione si associa ad uno stato di compenso per cui il sangue che preferibilmente circola in questi vasi dilatati è stato sottratto alle altre zone normalmente perfuse; se a questo punto si induce una ipercapnia, si crea una vasodilatazione generalizzata, e il sangue tornerà a circolare di preferenza nelle zone sane e “salterà” la zona ischemica ( steal phenomenon ).

Tutte queste osservazioni sono state a più riprese confutate e riaffermate, ma verosimilmente rappresentano il nucleo su cui si fondano le varie esperienze e metodiche.

Ehrenfeld, Fourcade, Boysen sono fautori dell’uso dell’ipocapnia che associano ad un moderato grado di ipertensione.

Sharbrough in un ampio documentato studio pubblicato alcuni anni fa si dichiara favorevole all’uso di una normale PCO2, perché pur non credendo all’effettiva entità pratica dello steal phenomenon, non ha notato con un’elevata PCO2 una diminuzione dell’ischemia pur con flusso aumentato.

Inoltre una condizione di acidosi indotta da un’alta CO2 può richiedere un più alto flusso e ancora non bisogna dimenticare il pericolo di aritmie in pazienti ad alto rischio come questi.

D’altra parte respinge l’uso della ipocapnia perché ha documentato in animali una riduzione del livello di ATP e un drammatico aumento del livello di acido lattico nelle aree ischemiche dopo questo trattamento.

Sundt in un lavoro del 74 conferma l’entità reale dello steal phenomenon.

Engell e Boysen in un’altra casistica dimostrano la capacità dell’ipocapnia di preservare il potere autoregolatore del SNC.

In un lavoro del 71 Bailey fautore di un’anestesia generale ipercapnica ne studia gli effetti sul circolo e sul cuore, concludendo con le ipotesi di Price che un’alta PCO2 aumenta la pressione arteriosa e la gittata cardiaca, lasciando immodificate le resistenze periferiche.

Kety e Schimtd affermano invece che gli effetti cardiaci non sono evidenti.

Veragut e Smith documentano per contro una caduta della gittata cardiaca e comparsa di aritmie nei casi in cui la CO2” è alta.

Fourcade ha misurato la pressione arteriosa subito a valle del clamp ( stump pressure ) e la pressione venosa del seno laterale, ha usato la ipocania e l’ipertensione arteriosa e ha riportato i risultati. Questi sono in parte in accordo con l’assunto teorico che in un’area cerebrale ischemica con vasi dilatati il flusso dipende dal gradiente artero-venoso.

Ora come dimostrato da Brawley sui cani e di Rasmussen sull’uomo, nell’area ischemica i vasi sono massimamente dilatati, una ipocapnia diminuisce il flusso generale, ma aumenta il flusso regionale nell’area ischemica dove la concentrazione di ioni idrogeno mantiene la vasodilazione; è questo il fenomeno di Robin-Hood come chiamato da Larsen. Per altro Fourcade riporta che in alcuni casi l’ipercapnia aveva lo stesso effetto di aumentare questo gradiente artero-venoso, forse attraverso un aumento della pressione sistemica; e ancora non ha apprezzato la realtà dello steal phenomenon.

 

LA STUMP PRESSURE

 

E’ una metodica largamente impiegata nel tentativo di avere una misura della perfusione dell’area ischemica durante il tempo critico dell’occlusione dell’arteria carotide comune. La tecnica consiste nell’inserire un ago nell’arteria carotide comune, dopo occlusione della stessa e della carotide esterna, a valle dell’occlusione, collegata ad un oscilloscopio che registra in mm. di hg.  Il valore registrato è guida al trattamento successivo.                                                                    Hays in un lavoro pubblicato nel 72 riporta 297 casi con misurazioni pre-operatorie della stump pressare. Quando il valore di questa è al di sopra dei 50 mm hg, si procede all’intervento, quando è al di sotto si applica uno shunt interno.                                                                                          Hobson in un lavoro del 74, dopo aver ricordato i mezzi a disposizione per una valutazione del circolo collaterale nell’area ischemica e cioè la stump pressare, l’occlusione temporanea dell’arteria carotide, la determinazione del flusso regionale con isotopi radioattivi, riporta 232 casi operati in anestesia locale con misurazione della stump pressare.

Considerando alcuni deficit neurologici comparsi nel decorso post-operatorio pur con alta stump presure, in parte spiegabili con fenomeni di embolizzazione, ma in parte dovuti ad una sofferenza ischemica, conclude dicendo che se la stamp pressure è l’unico criterio di giudizio del circolo collaterale bisogna richiedere un valore minimo di 60-70 mm. di hg per evitare l’uso dello shunt ed il rischio di fatti ischemici.

IL ruolo della stump pressure come indice fedele del flusso ematico nell’area ischemica è contestato da molti, specie considerando certe complicazioni neurologiche post-operatorie di cui si è fatto cenno in precedenza

Boysen è convinto assertore dell’eziologia embolica di questi quadri e quindi ripropone la validità della stump pressure.

Ehrenfeld è un fautore della ipocapnia ed egli associa sempre questa tecnica a misurazioni pre-operatorie della stump pressure che in normo o ipocarbia mantiene valori bassi o comunque inferiori ai 60 mm hg, che rappresenta il limite al di sotto del quale si perde il potere di autoregolazione da parte del sistema nervoso centrale.

L’autore sposta l’indicazione allo shunt è una stump pressure al di sotto dei 35 mm hg.

 

La pressione arteriosa

 

Tutti gli autori sono concordi nel valutare indispensabile un buon compenso del circolo generale a livelli pressori normali o leggermente superiori alla norma ottenuto con l’impiego di farmaci vasopressori e con la reintegrazione volemica. Basandosi sul concetto che il flusso nell’area cerebrale ischemica è in parte dipendente dalla pressione sistemica, avendo perduto una propria capacità autoregolante, alcuni autori hanno usato tecniche anestetiche che prevedono un marcato grado di ipertensione per lo più associato ad ipocapnia.                                                                        I risultati riportati da Ehrenfeld e Fourcade convalidano questa impostazione lasciando però irrisolto il problema sottolineato da Heifetz che in ultima analisi la pressione arteriosa di per sé non è misura dell’effettivo flusso cerebrale e che l’impiego di vasopressori può risultare rischioso in questi pazienti specie in regime di ipercarbia. Pertanto l’accordo sembra generale sul mantenimento di una pressione a livelli leggermente superiore alla norma, ma non sull’impiego di una pressione più alta, perché coloro che impiegano la ipercapnia ottengono con la vasodilatazione indotta, quell’aumento del flusso che i fautori della ipocapnia richiedono all’aumento pressorio.

 

Flusso cerebrale e elettroencefalogramma ( eeg ).

Il problema fondamentale come risulta da quanto detto è quello di ridurre in qualche modo l’ischemia già presente per la lesione carotidea e aggravantesi inevitabilmente nei 35 minuti dell’intervento che prevede l’occlusione dell’arteria carotide.

Le varie tecniche proposte cercano appunto in prima analisi di valutare l’efficacia del circolo collaterale e conseguentemente di adeguare il trattamento alla particolare situazione trovata.

Con l’uso di shunt, variazioni della percentuale di pCO2 , innalzamenti pressori, etc……..

Da questo punto di vista si è guardato con interesse come ulteriore presidio diagnostico e prognostico all’eeg e alla misurazione del flusso cerebrale con isotopi radioattivi.

In passato si era contestato l’impiego dell’eeg perché durante anestesia generale questo mostra variazioni al mutare dei diversi piani di profondità anestetica. Si è però visto che una anestesia ben condotta lascia inalterato il tracciato eeg e questo diventa sensibile solo a danni neorologici da ischemia o da altra causa comunque non legata all’anestesia.

E’ chiaro pertanto che l’eeg diventa applicato alle prime fasi dell’intervento sicuro indice della risposta del tessuto nervoso all’occlusione carotidea del successivo tempo chirurgico.

Quando, infatti, il circolo collaterale è compromesso l’occlusione porta alla comparsa nel tracciato di onde lente theta e delta al posto di quelle normali di 10-14 HZ e 25-100 microvolts; e questo impone l’applicazione di uno shunt.           In generale tutti i pazienti con tracciato eeg normale prima e durante l’intervento non sviluppano alterazioni neurologiche post-operatorie. I pazienti che sviluppano alterazioni nuove elettroencefalografiche durante l’intervento richiedono l’applicazione di uno shunt per prevenire più definitivi danni alla funzione nervosa. Concomitanti misurazioni del flusso regionale hanno permesso di stabilire intorno ai 17-18 ml il flusso minimo che il tessuto nervoso può tollerare senza danni. Precedenti studi di Alexander e Finnerty avevano questo limite molto più alto a 21 e 30 ml rispettivamente. Al di sopra di questi valori il flusso si dimostra perfettamente adeguato a sopperire alle richieste del tessuto nervoso, come  documentato dalla perfette simmetria del tracciato eeg. Se si considera che nell’arresto cardiaco in cui tale flusso può essere considerato nullo e in esperimenti su animali con un flusso indotto di 15 ml, occorrono rispettivamente 4 minuti e due ore per l’infarcimento emorragico irreversibile, potrebbe sembrare eccessivo l’uso di uno shunt data la relativa brevità dell’intervento. Senonchè la rapidità e la gravità della lesione indotte da un flusso insufficiente sconsigliano la verifica nel paziente di tali dati.

 

Conclusioni

La scelta dei pazienti da sottoporre all’intervento di tromboendoarterioctomia carotidea si fonda su accertamenti clinici, immagini arteriografiche, e da scansione con ultrasuoni, che documentano una lesione carotidea aggredibile chirurgicamente, e ci danno informazioni preliminari sullo stato del circolo collaterale. Il problema principale del paziente che presenta una patologia aterosclerotica carotidea è l’ischemia cerebrale da ridotto apporto ematico, che si manifesta con diversi quadri sintomatologici in relazione alla diversa localizzazione anatomica della lesione. Il trattamento chirurgico prevede un tempo occlusivo carotideo della durata media di 30 minuti durante il quale è giustificato attendersi un’ulteriore riduzione del flusso sanguigno. Per evitare questo fenomeno si sono adottate diverse tecniche che si richiamano a questi presupposti anatomo-funzionali.  Esiste un’autoregolazione del circolo cerebrale mantenendosi la pressione sistemica ai valori compresi tra i 70-150 mm hg al di fuori di questi valori esso segue le variazioni del circolo generale. Il tono vasale del sistema circolatorio cerebrale è regolato principalmente per via chimica attraverso variazioni del tasso di anidride carbonica e di metabolici acidi che regolano il flusso a secondo delle esigenze locali. Un’area ischemica presenta una vasodilatazione distrettuale che aumenta il circolo locale rispetto a quello di tutto l’encefalo. Fenomeno che va sotto il nome di sindrome di robin-hood.  L’ulteriore aumento dell’anidride carbonica crea una vasodilatazione centrale generalizzata con aumento del flusso ematico al tessuto nervoso. In queste condizioni si può verificare una sottrazione di sangue dall’area ischemica a favore del tessuto sano: si parla di fenomeno di furto.                                                                                                                                                  In base a tutto quanto è stato detto ci sembra esista un’evidenza per avanzare queste conclusive:                     L’anestesia generale dovrebbe essere preferita a quella locale per un più completo controllo delle funzioni vitali del paziente.                                                                                                                                                                                                Un modesto gradiente iperbarico aumenta il flusso ematico al cervello senza portare al fenomeno del furto, così pure una modica ipertensione migliora la circolazione cerebrale con l’elevazione del gradiente artero-venoso da cui dipende nella zona ischemica il flusso effettivo.                                                                                                                         Una valutazione iniziale della stump pressure ci permette di verificare l’entità del circolo collaterale e decidere l’impiego di uno shunt.                                                                                                                                                                 Rilevazioni elettroencefalografiche durante il tempo occlusivo dell’intervento ci informeranno sulla tolleranza del tessuto nervoso all’ischemia.

D’altra parte bisogna considerare che per ottenere un modesto grado di ipercapnia è preferibile la ventilazione manuale rispetto a quella automatica che per sua natura tende a diminuire, sino ad eliminare totalmente l’anidride carbonica dall’organismo.                                                                                                                                                 L’ipoventilazione manuale ad alto flusso di ossigeno assicura un modesto aumento dell’anidride carbonica senza i pericoli dell’ischemia. Inoltre permette degli aggiustamenti rapidi in relazione a misurazioni intraoperatorie della PO2 e della PCO2 che il ventilatore automatico non consente.                                                                                                   E’ anche da sottolineare che quest’ultimo senza controllo manuale tende a depauperare l’organismo di CO2 vanificando i nostri tentativi di indurre un modesto grado di ipercapnia.                                                                                Per compensare gli effetti periferici dell’anidride carbonica, ed elevare il gradiente artero-venoso da cui dipende nell’area ischemica il flusso ematico effettivo, noi riteniamo sia opportuno mantenere un livello presso rio discretamente elevato, associando la reintegrazione polemica.