La signora delle case popolari basse
Abitava in un piccolissimo quartiere, agglomerato di pochi edifici che chiamavano le case popolari basse, tirate su in fretta dopo la guerra a dare un tetto ai senza casa, scampati dalle macerie delle abitazioni distrutte dai bombardamenti. Ma c’era anche gente che veniva da fuori con storie nascoste da dimenticare. Povertà ed eredità genetiche avevano prodotto una progenie infelice come si chiamavano allora i diversamenti abili di oggi: molti ritardati e frenastenici, neurolesi ed oligofrenici. Quelli normali, con una forte passione per la devianza e la violenza. Uno dei molti che aveva partorito era ospite frequente delle patrie galere, un altro, minorato psichico accompagnava a lavoro il padre posteggiatore. Lei nascosta in casa, bestiale ancella di servaggi muliebri, non ancora dignità umana nonostante la libertà democratica. Passata la bufera della vita ormonale, non più schiava della carne generata e delle incombenze conseguenti, si affacciò, quasi vecchia, al mondo intorno, timidamente. Qualche straccio per coprire il corpo logorato, graziosamente rammendato con quel che l’arte primitiva di sarta di necessità le consentiva, e il viso colmato nelle rughe dell’età, delle privazioni, delle violenze, da una sorta di belletto procurato non si sa dove. Usciva per la funzione religiosa come occasione consentita, non rifiutata, per conoscere il circostante. Un anziano uomo, solo, che abitava lì vicino le sorrise. Lei lo vedeva passare sfrecciante arditamente su un motorino scoppiettante sulle strade intorno. L’immagine di quell’uomo riempì i suoi occhi e quella cosa misteriosa che aveva sentito gli altri chiamare anima. Quando usciva di casa prese a passare davanti la casa dell’uomo, tremolante di Parkinson e di danni alcoolici, sperava di vederlo di nuovo, dopo le diuturne apparizioni fugaci della due ruote ventose. Provò sentimenti sconosciuti e ne morì.