La nostalgia ipocrita del mondo contadino

 

 

La comprensione dei fatti e delle idee contemporanee è difficile, e questa difficoltà interpretativa finisce per colorare il presente di una nota negativa, che ci fa dire oggi come ieri, con un’espressione logora e che significa tutto e niente, che il mondo è in crisi.   Dibattiti, analisi, prospettive cercano di far chiarezza, ma raramente si riesce ad arrivare ad una conclusione.  E d’altra parte sarebbe impossibile, giacché il presente è divenire e l’attimo che stiamo vivendo è già contemporaneamente passato e futuro, vissuto da archiviare e futuro da inventare.   Per questa difficoltà a capire, a trovare un filo conduttore, spesso si rimanda ad un’età dell’oro in cui le cose andavano meglio.  Nella storia è stato sempre presente questo strabismo di chi guarda il presente e il futuro con gli occhi rivolti al passato.     Lo strabismo potrebbe essere un fatto virtuoso se significasse apprendere gli insegnamenti della storia.   Quando questo non è, si carica lo sguardo al passato di giudizi di merito, nel senso di ritenere il passato, l’età dell’oro.    La cosa tipicamente vale per la nostalgia del mondo contadino.        Ora il mondo contadino non era propriamente un luogo di felicità.     I contadini erano una classe di poveracci che lavorava su terre spesso non di proprietà, e la cosa valeva anche per le case che abitavano.    Come compenso ricavavano i mezzi di sostentamento alimentare e poco altro.       Da noi i proprietari erano una classe privilegiata di nobili, borghesi ed ecclesiastici spesso lontani dai loro possedimenti, preferendo risiedere in città.        Addirittura in Russia, sino alla fine dell’Ottocento, i contadini erano di fatto schiavi: li chiamavano servitù della gleba.     E ancor prima, schiavi erano i contadini dell’Impero Romano come si evince nel De Agricultura  di Columella, dove accanto alle indicazioni sulle coltivazioni, sulla cura degli animali e su tutto quanto concerneva la vita in campagna, si davano indicazioni sulle pene da infliggere agli schiavi che lavoravano la terra.     Ed anche prima ai tempi della repubblica, quando la terra era lavorata da liberi cittadini, le condizioni erano talmente misere che la maggior parte era costretta ad ingrossare la plebe cittadina, dove almeno si poteva contare sulle elargizioni frumentarie dello stato.      Non cambiarono di molto le cose, almeno da noi, sino ai tempi più recenti.   I braccianti e i mezzadri delle nostre campagne vivevano nei casolari lontani dai paesi e dalle città, comunque distinti da questi.      Vivevano in una promiscuità familiare naturistica, dove accanto a rapporti di solidarietà e condivisione, non erano infrequenti pratiche violente, talora incestuose in un contesto di paganesimo panteistico pre-cristiano.        La nobiltà dei sentimenti e dei comportamenti erano accidenti genetici fenotipicamente virtuosi, ma spesso occasionali.     E contadini furono gli assassini dei fratelli Pisacane, e sempre contadini furono le masse dei lazzaroni che agli ordini del cardinale Rufo di Calabria annegarono nel sangue il tentativo rivoluzionario della repubblica partenenopea.    Ma la colpa di tutto questo non era imputabile a loro, se si considera il degrado nel quale erano costretti a vivere, le condizioni precarie nelle quali si svolgeva la loro vita, che lasciava poco spazio ai comportamenti nobili.       E le case dei contadini non avevano intorno alberi a differenza di quelle dei padroni: perché gli alberi servivano per la legna, e rubavano spazio alle coltivazioni e non erano compatibili con i lavori dell’aia.   Di più piantare un albero significava un progetto, un radicamento in quel posto per sé e la famiglia a venire, e questo confliggeva con la precarietà della loro condizione, con la possibilità o necessità non infrequente di una migrazione dell’intero gruppo familiare ad altro casolare.   Poteva accadere di nascere in una casa, di lavorare in un altra, si morire altrove.   E alle sventure naturali, le malattie, la morte, si aggiungeva ciclicamente la violenza dello stato che si veniva a prendere i giovani forti e sani e li mandava a morire su lontani fronti di guerra.         L’unica soluzione a tutto questo era l’emigrazione.      Si andava ad ingrossare le file dei dannati della mano d’opera nelle miniere e nelle fabbriche del progresso con la speranza di un futuro migliore per i figli.   Ma non sempre si riusciva a raggiungere quella condizione pur gravosa, spesso li attendeva il destino di sottoproletari disoccupati che ingrossavano le zone degradate della città, nuova plebs frumentaria.

E basta così.