Era uscito di casa in via dei Pastini che ancora non albeggiava in quel giorno d’ottobre che sapeva quasi di primavera.Prese per via delle Paste, da lì in piazza S.Ignazio e dopopochi passi si ritrovò in via del Corso . Lo percorse verso l’Altare della Patria, passò davanti la chiesa di S.Marcello.
Lui non frequentava le chiese, non le aveva mai frequentate. Gli anni dell’adolescenza non avevano previsto per lui l’oratorio,ma i cantieri di lavoro del padre e dello zio Silvio. Di più, l’aria che si respirava in casa non era certo clericale. Il nonno Attilio era nato quando il Papa stava ritirandosi in Vaticano, a seguito dell’ingresso in Roma dei bersaglieri del generale Cadorna, che posero fine al suo potere temporale. E quando fu il tempo di prendere coscienza delle condizioni della sua classe di operai e proletari aveva aderito al nascente Partito Socialista, e negli anni a venire gli uomini della famigliaavrebbero fatto tutti la medesima scelta.Ma quella mattina, passando davanti la chiesa di S. Marcello, Zeno avvertì l’impulso di entrare. Lì per lì scacciò il pensiero, ma il passo, senza volerlo si fece più lento, e quasi contro la sua volontà si volse verso la breve scalinata che dava accesso al tamburo dietro il portale. Poca gente anziana nelle bancate, per lo più donne. A destra, in una cappella laterale,vide altre persone inginocchiate davanti un Cristo Crocifisso, circondato da dovizie di candele ed ex-voto. Sulla balaustra, una scritta per visitatori occasionali, ricordava che si trattava di un Crocifisso miracoloso. Raccontava che i romani vi si rivolgevano singolarmente per grazie personali, e la comunità tutta per avere sostegno nelle calamità della natura,nellepestilenze, nelle guerre e nei saccheggi:ultimadifesa dall’odio degli uomini. Nelle occasioni più nefaste veniva portato in processione per le strade della città, e la preghiera e i canti accomunavano tutto il popolo, magari anche quelli causa delle calamità, com’era accaduto in occasione del sacco di Roma da parte dei Goti diAlarico. In quel frangente si vide una folla di romani e barbari dietro altro simulacro.Allora si trattò di una reliquia che una monaca difese con la propria vita dalle manacce di un soldataccio barbaro e questi, confuso da tanto coraggio, consegnò lasuora e la reliquia ad Alarico, perché decidesse del loro destino. Questi, per risposta, fece portare entrambi in processione per le strade di Roma, insieme e davanti ad un popolo in preghiera di barbari e romani, uniti dalla comune fede, quasi a suggellare la indecorosa fine di Romolo Augustolo, nascosto a Ravenna, e con lui dell’Impero Romano d’Occidente.
Zeno si ritrovò a guardarlo quel Crocifisso, con meravigliata intensità, sembrava che gli chiedesse qualcosa. Ma cosa? Non preghiere, non ne conosceva e comunque sarebbero state estranee al suo credo socialista.Gli avevano insegnato a rigettare la religione, trappola per i poveri ,inventata per far sopportare loro i soprusi, con la promessa di un mondo migliore dopo la morte. Ma quell’uomo in croce sembrava ancora soffrire dopo duemila anni, somigliava ai manovali più sfruttati dei cantieri. Non riusciva a sentirlo estraneo o peggio nemico. Se ne andò un po’ scombussolato, ma con qualcosa dentro che sapeva di nuovo, di una nuova frontiera da esplorare prima o poi. Pensò che doveva ricordarsi in futuro di quel Crocifisso e di quella Chiesa e per intanto si disse che al prossimo figlio dopo il primogenito Tarquinio, e sperava sarebbe stato maschio come il primo, avrebbe dato il nome di Marcello.Così senza rinnovare quelli di casa sua e ancor meno quelli di casa della moglie Regina, che per il primo figliolo aveva rinnovato il nome del padre, morto in guerra.
Riprese il cammino verso piazza Venezia, l’appuntamento era lì, a sinistra della scalinata dell’altare della patria, accanto i ruderi di quella che era stata una porta d’ingresso al foro, porta Rotumnea o Fontanilis, in prossimità del miglio aureo della via Flaminia. Un tempo la stradaconsolarepassava di lì, veniva dal foro e proseguiva diritta in quella che fu chiamata nei secoli a venire via Lata, e attualmente via del Corso. Non c’era più traccia dell’antico selciato che forse giaceva sotto l’asfalto, ma molte cose raccontavano ancora la Roma di quel tempo. Come gli ambienti sotto la chiesa di Santa Maria in via Lata, all’altezzadi palazzo Doria-Panfili, un tempo cantina dei principi, ma prima, abitazione-prigione dell’apostolo Paolo nel breve soggiorno romano.
A quell’appuntamento, Zeno si recava per incontrareSilvio, lo zio paterno. Li univa, oltre il rapporto di parentela e la comune fede socialista, il lavoro nei cantieri. In quegli anni nella campagna romana a costruire gli edifici che avrebbero ospitato Expo 42. Socialisti, come scelta di campo, come consapevolezza della appartenenza di classe, diadesione ideale ai principi, ma non prassi quotidiana di lotta e opposizione al regime. Non ne avevamo il tempo, la necessità del lavoro per il sostentamento delle famiglie era prioritaria,poi la loro natura era lontana dalla radicalizzazione delle posizioni, lasciavano ad altri, a coloro che per censo e cultura potevano permetterselo l’impegno totale. La loro missione era quella di fare il lavoro di artigiani nel quale erano stati educati. Nonostantetuttoquesto,un rapporto dei carabinieri del loro paese in Umbria li aveva segnalati come oppositori del regime. Se n’era accorto Zeno, per le lamentele della zia Romelia, presso cui appunto, in via dei Pastini aveva preso alloggio con la moglie Regina e il figlio Tarquinio.La Romelia e il marito di lei Bernardo, lavoravano entrambi con funzioni diverse presso l’albergo Anglo-Americano che sorge vicino a palazzo Barberini e a via Rasella. Questi non si interessavano di politica, quindi avevano scoperto con apprensione crescente alcuni individui aggirarsi nella strada a chiedere informazioni sui nuovi ospiti del loro appartamento.Si trattava di poliziotti in borghese,poliziotti che furono visti guardare le finestre dell’appartamento e parlare con i commercianti della strada su quella famiglia che dall’Umbria aveva preso dimora lì. Non c’era nulla da scoprire, oltre l’adesione ideale ad un partito avverso al regime. Iniziative e prassi rivoluzionarie erano possibili per pochi, coraggiosi certamente, ma anche privilegiati, che potevano astenersi dal lavoro ed avere in altro modo i mezzi di sostentamento per sé e la famiglia.Era ignoto a costoro il peso delle “caldarelle” sulle spalle,con le piaghe che causavano, o i geloni sulle mani e sui piedi, d’inverno. Cosi erastato per un certo tempo anche per Umberto, padre di Zeno e fratello di Silvio. Aveva fatto la sua parte,poi dopo un incidente sul lavoro, aveva preso a zoppicare e il bastone era diventato suo compagno inseparabile. Dunque aveva prima diminuito, poi cessato di lavorare e si era potuto dedicare allapolitica nelle città dei cantieri e poi nel suo paese dove si era ritirato. Complice in qualche modo l’Angelina, la moglie silenziosa, proprietaria di due campetti al paese, che con il suo lavoro procuravano il sostentamento alimentare alla numerosa famiglia, quando la muratura non bastava. Così Umberto poté dedicarsial partito di Turati e poi di Nenni. Al paese gli fu affidata la sezione del partito, che poi fu a lui intitolata. Quando morì, alle esequie fu letto da un compagno, Mondo il barbiere, il telegramma che aveva mandatola direzione del partito da Roma, con sotto in calce la firma di Pietro Nenni. Il mestiere di muratore Zeno l’avevo appreso dal padre Umberto ma soprattutto dallo zio Silvio, che aveva solo figlie e con quel nipote si legò d’affetto e se lo portò dietro, in giro per l’Italia, nei cantieri che seguiva da assistente della grande impresa Costanzi. Manovale prima, poi muratore, dopo capomastro, infine assistente ai lavori, questa era la carriera nell’edilizia e questa avevano seguito quelli della famiglia, muratori da generazioni. Anche Zeno avrebbe percorso quella trafila e per la vicinanza con lo zio Silvio, pur non avendo risparmiata la dura gavetta, percorreva le tappe più celermente del normale. Lo aiutava anche una disposizione del carattere, fatto di pazienza, di ascolto, di empatia che favoriva il rapporto con gli ultimi arrivati. Erano loro a legittimare il ruolo gerarchico che aveva acquisito con l’esperienza maturata accanto a Silvio.
Avevano deciso di tornare al paese, si era in tempo diguerra, il viaggio sarebbe stato lungo e pericoloso. In piùquelli erano giorni difficili, la guerra, sconfitta dopo sconfitta, aveva fiaccato l’entusiasmo iniziale della gente o meglio di quelli più sensibili alla propaganda del regime, o per sincera adesione o per tornaconto personale di affari e carriere. Il popolo da sempre rimaneva in disparte, avvezzo a ritenere che le guerre fossero per loro una calamità. Ma Mussolini sembrava uomo della provvidenza, sino ad allora gli era andato tutto bene,aveva acquisito prestigio personale lui e con lui l’Italia.C’erano state riforme sociali, il fenomeno drammatico dell’emigrazione si era un po’ interrotto,la grancassa del regime pubblicizzava le nuove terre e le ricchezze che le conquiste coloniali promettevano. Nuova terra per i contadini veneti e meridionali, oltre quella della bonifica pontina e di alcune zone della Sardegna e della Basilicata. Per i più acculturati l’Impero solleticava orgogli nazionali, sepolti per duemila anni e ora riproposti con fantasmagoriche parate lunga via dell’Impero, dove erano stati posti bassorilievi raffiguranti le regioni del mondo sotto il dominio di Roma, che lo stato fascista, senza dichiararlo apertamente, sognava di riconquistare. E queste cose facevano breccia anche nei più semplici, ancorché a livello subcosciente. Li faceva sentire partecipi di qualcosa di grande che loro non capivamo bene, ma che in ogni caso prometteva benessere.Poi però la guerra si era messa male, le batoste in Albania, in Africa, infine in Russia avevano fatto perdere l’entusiasmo del popolo. Morivano gli italiani al fronte, e ora anche sotto i bombardamenti dei nemici. Zeno lavorava alla costruzione dell’Expo 42 ma con la guerra i lavori furono sospesi e lui fu richiamato sotto le armi. Carrista in Albania per la guerra contro la Grecia. Laggiù c’era anche un fratello, si chiamava Alceste, fante al fronte. La Regina e Tarquinio erano tornati al paese in Umbria, a Sigillo, dalla mamma di lei che era bidella della scuola elementare e telefonista del paese. Poi Alceste morì in combattimento al fronte. Gli dettero anche una medaglia alla memoria, per lo sprezzo del pericolo con cui era andato all’assalto di una postazione nemica. La medaglia era di bronzo, come si addiceva ad un figlio del popolo, per il quale non ci si poteva sprecare più di tanto. Poi quando cambiò il regime, non fu nemmeno più il caso di ricordare quel bronzo. Quel soldato morto era solo un disgraziato che aveva combattuto dalla parte sbagliata, soldato della guerra fascista e di loro era meglio non ricordarsi. Una “damnatio memoriae” che oltre i capi, spesso sopravvissuti,colpiva anche gli sventurati che ci avevano perso la vita.Comunque con la morte di Alceste,Zenopotétornare in patria,in virtù di una legge che tendeva a preservare le famiglie da eccessivi lutti. Chi sa quali motivazioni? Forse per evitare rivolte, o un affievolimento dello spirito patriottico, o ragioni economiche: non togliere braccia e fonti di reddito alle famiglie. Tornò in Italia,lo misero di riserva in una caserma presso Civitavecchia, dove lo colse l’8 settembre.Gli ufficiali della caserma uno dopo l’altro si dileguarono nelle settimane successive, seguendo l’esempio del re e dello Stato Maggiore delle Forze Armate.I soldati rimasti in balia di loro stessi, se ne andarono a gruppi o da soli. Zeno fu tra gli ultimi.Era ormai l’inizio di ottobre quando raggiunse la casa di via dei pastini di notte,dove fu accolto con timore e malvolentieri dalla zia Romelia e si preparò all’incontro con lo zio Silvio che aveva stabilito un contatto con lui alcuni giorni prima. Dalla caserma aveva portato con sé delle armi: una pistola e due bombe a mano, leaveva nascoste nelle tasche del pastrano. La mattina,come detto, si era alzato di buon’ora, ed era uscito senza salutare i parenti che ancora dormivano e che non si sarebbero doluti della sua assenza.Arrivò al luogo dell’incontro, lo zio Silvio era già lì. Poca gente in giro. Attraversarono velocemente la piazza, passarono sotto il famigerato balcone da cui si erano celebrati i trionfi del regime, sino all’ultimo della dichiarazione di guerra che avrebbe portato lutti e distruzione alla nazione. Bisognava farsi vedere in giro il meno possibile, potevano incappare in pattuglie di tedeschi che avevano occupato la città. “Che ne sarà” pensava Zeno“ delle nostre truppe ancora in servizio per la scelta coraggiosa dei loro comandanti?”.Non seppe darsi una risposta, solo brutti presentimenti. Presero per il Corso diretti a Piazza del Popolo.Camminavano veloci per allontanarsi quanto prima dal centro. Una volta superata Porta del Popolo, si sarebbero trovati fuori dalle mura aureliane. Da lì avrebbero proseguito lungo la Flaminia a piedi e magari con qualche mezzo di fortuna per 200 chilometri sino ad arrivare a Sigillo, il loro paese. Zeno avrebbe riabbracciato la moglie Regina e il figlio Tarquinio, Silvio la moglie Serafina e le tre figlie.Passarono sotto i portici della galleria Umberto,di fronte c’era palazzo Chigi con davanti la colonna dedicata a Marco Aurelio. Raccontava un’altra guerra, quella vittoriosa dei romani contro i marcomanni ed altre popolazioni di barbari che insidiavano il confine nord-orientale dell’Impero sul Danubio. Gli sconfitti erano rappresentati ancora più giganteschi e feroci di quanto probabilmente fosseronella realtà, a maggior gloria dei legionari che li avevano battuti. Costeggiarono il grande palazzo della Rinascente e proseguirono sino ad arrivare a Piazza del Popolo. Si fermarono sotto l’obelisco centrale,solo un attimo, per tirare fuori un po’ di pane e companatico dalla gavetta. Quel tascapane che oltre i soldati usavanoanchei muratori con dentro il cibo della giornata di lavoro. Silvio l’aveva preparata la sera, ne dette un pò a Zeno, ne prese un pò per sé, e mangiando continuarono la loro strada.Un tempo la piazza che stavano lasciando ospitava la chiesa, le dimore, gli orti degli agostiniani in Roma. La chiesa di S.Maria del Popolo c’era ancora, ma tutto il resto era scomparso, per la ristrutturazione che ne aveva fatto il Valadier nel 700’ con la creazione della grande piazza centrale e della prospicente salita del Pincio. Era scomparso in particolare il lungo loggiato che circondava lo spazio centrale tutto affrescato dal Pinturicchio e dalla sua scuola. Erano scomparse le dimore dei frati, dove aveva soggiornato per alcuni giorni l’agostiniano Martin Lutero, venuto a Roma presso la casa madre del suo Ordine, e fuggitone dopo aver realizzato di non aver trovato ciò che era venuto a cercare. Tornato a casa in Germania elaborò e poi scrisse parole pensate a Roma e rimaste in bocca senza nessuno che volesse ascoltarle. Le chiamò tesi e cercò in Germania chi potesse ascoltarle, forse il vescovo di Wittemberg, la città del suo monastero. Ma per primi le ascoltarono i principi tedeschi.Guttemberg con quella cosa che aveva proprio allora inventato, le stampò. E fu Riforma.
Attraversarono la porta e furono fuori Roma. Lì la Flaminia continua diritta continuando l’asse viario del Corso, e corre all’incontro con il Tevere che raggiunge dopo alcuni chilometri. Zeno si volse indietro a guardare la città che lasciavano, cinta dalle imponenti mura che il generaleStilicone aveva eretto su ordine dell’Imperatore Aureliano per difendere Roma dai barbari. Non ce n’era stato bisogno sino ad allora, perché dopo Brenno nessuno aveva più osato, o meglio era stato in grado, di minacciare la città. Neanche Annibale con la capitale in ginocchio si era azzardato. Zeno non conosceva tutte quelle antiche storie. Si chiedeva con quali macchine avessero tirato su le pietre, magari a mano, ché la mano d’opera non sarà mancata e comunque le avevano fatte solide: resistevano da duemila anni. C’erano voluti i Savoia per buttarle giù in alcuni tratti, dopo le cannonate di Porta Pia. Ci fecero passare le nuove strade che andarono costruendo dentro la città, in modo da farle assumere le sembianze di una città europea, con anonima impronta torinese.Per il resto le mura conservavano le antiche porte che davano passaggio alle strade consolari. Queste partendo dal Foro collegavano il centro dell’Impero con tutto il mondo conosciuto. Quella che avevano attraversato dava passaggio alla Flaminia, consolare che percorreva il Lazio, l’Umbria, per terminare in un primo tempo a Fano (Fanum-Fortunae) nelle Marche, e successivamente a Rimini (Ariminum), in Romagna. La percorrevano, un tempo, le legioni della Repubblica e dell’Impero, per conquistare il mondo. Le calpestarono poi le orde dei barbari che posero fine al sogno, e dopo di loro altri eserciti, a spartirsi quello che rimaneva dell’antica bellezza. Pellegrini infine a visitare i luoghi della fede e le nuove pietre che riedificavano la perduta grandezza: la nuova Roma dei Papi sovrapposta ai ruderi imponenti del passato, e accanto, i palazzi umbertini e i recenti monumenti del regime. Una accozzaglia di stili architettonici che seguono il succedersi dei tempi, e invece di disturbare fanno l’incredibile bellezza di Roma
Poche parole tra loro mentre camminavano di buon passo. La via lasciava le poche case che ancora raccontavano la grande città alle spalle e si consegnava alla campagna ricca di buona terra di cui Zeno riusciva a rendersi conto,probabilmenteper eredità materna.Si fermarono a bere su una fontana sul ciglio della strada. Ce n’erano lungo le vie consolari, da secoli, raccoglievano e distribuivano l’acqua delle colline e dei monti intorno, servivano per ristorare i legionari in marcia per la gloria di Roma e poi i pellegrini che andavano a pregare sulla tomba di Pietro e a ricevere la benedizione dal Papa.Silvio e Zeno indossavano abiti da viaggio di velluto pesante con un pastrano sulle spalle per la pioggia e la notte, scarponi militari Zeno e nelle ampie saccocce le armi che aveva portato con sé.La folta capigliatura di entrambi, che era un tratto genetico di quella famiglia, si muoveva al vento che spirava da sud e minacciava di portare pioggia. Corpi asciutti, muscolosi per via del lavoro, procedevano agili lungo il ciglio della strada. Zeno precedeva lo zio Silvio, gocce di rugiada bagnavano i suoi baffi. Piaceva alle ragazze, Zeno, con i suoi baffi e il modo di camminare. E i calli sulle mani di muratore non confliggevano con l’eleganza dei suoi modi e del parlare. Per questo non si era sottratto a qualche avventura in giro per le città d’Italia dove arrivava per il lavoro dei cantieri.Poi aveva conosciuto la Regina e si era mantenuto fedele, anche perché la consorte era donna gelosa e tosta, non sarebbe passata sopra ad eventuali debolezze. In una occasione corse un serio pericolo. Erano arrivati in paese i fratelli di una ragazza con cui Zeno aveva discorso in quel di Pisa e sembra che lei soffrisse troppo, perché loro non si andassero ad accertare delle intenzioni del quel fantasma umbro che era transitato nella loro città. Capirono e se ne tornarono da dove era venuti.Era comparsa già la Regina nella sua vita anche se non erano ancora sposati. E comunque lei non ne seppe nulla e fu meglio così, altrimenti di Tarquinio e del possibile Marcello non se ne sarebbe fatto nulla, una pratica non esperita.
Ogni po’ incontravano uomini in bicicletta che andavano a Roma per lavoro. Poche automobili con il peso sul tetto del carburo per il gas. Passò anche una colona di camion militaritedeschi, diretti a Roma.Non si occuparono di loro, passarono oltre. I due si guardarono senza parlare, e tirarono un sospiro di sollievo. Continuarono lungo la strada ed arrivarono al Tevere.Lì la Flaminia attraversavail fiume su un ponte rimasto lo stesso dai giorni della battaglia tra Massenzio e Costantino: ponte Milvio. Un tipaccio Massenzio, superbo e pieno di sé, aveva dalla sua il Senato.Si era insediato da tempo a Roma, con la potente guardia pretoriana a difenderlo. Si sentiva l’unico, il vero capo dell’Impero. Non così Costantino, più concreto, riflessivo, lungimirante. Senza idee di grandezza dichiarate o ostentate, ma quando fu il tempo le avrebbe tirate fuori e che idee! Da cambiare il mondo, meglio e più di quanto era riuscito a fare prima di lui Diocleziano. Il regolamento di conti non andò bene a Massenzio. Costantino ne fece strage e come raccontano di Annibale contro Flaminio sul Trasimeno, da cui le acque del lago, rosse per giorni del sangue dei legionari; così fu del Tevere per il sangue dei legionari e dei pretoriani di Massenzio.
Attraversarono il ponte e proseguirono lungo la strada che per un lungo tratto correva lungo la sponda del gran fiume.Quando furono nella zona del Foro Italico si imbatterono in un camioncino dove stavano finendo di caricare legna tagliata nei boschi circostanti. Si fermarono e chiesero al conducente indaffarato se gli occorresse un aiuto, in cambiola richiesta di un passaggio per il tratto che avrebbe fatto nella direzione del loro camminare. Questi era diretto nella zona diGrottarossa. Doveva portare legna ad un casale lungo la via.Salirono sul camion, dietro, in mezzo alla legna, ché, davanti,accanto al guidatore, nonc’era posto. Era uno di quei camioncini a tre ruote con la parte posteriore più ampia, aperta, dove si caricavano le cose da trasportare, e davanti un abitacolo piccolo ricavato sopra il motore che poteva ospitare il guidatore e poco più. Così, solo un po’ occultati, erano comunque contenti, per il riposo del corpo e la minore visibilità rispetto al camminare a piedi lungo la strada. A destra il Tevere aveva smesso di correre, chèsi allargava in una sorta di lago artificiale per la diga che avevano eretto poco più a valle. Lì si formava una grande riserva d’acqua, anche una difesadella città in caso di piene nonostante i muraglioni e come sovente era accaduto nei secoli passati prima della costruzione di quelli.A sinistra la strada correva a ridosso di una rupe che si estendeva per chilometri in lunghezza. Era evidentemente una scelta costruttiva degli ingegneri romani, come a cercare un supporto roccioso cui ancorarla, infatti anche in Umbria e nelle Marche si ritrovava quella cosa. Ma lì appena fuori Roma la rupe era crivellata di anfratti e caverne che lasciavano pensare ad un loro più antico utilizzo come ripari o addirittura abitazioni di popolazioni primitive e dunque che il selciato di pietre cubiche della strada consolare avessero ricoperto un preistorico tratturo, via di comunicazione delle popolazioni preistoriche. Arrivati su un rettifilo comparve in lontananza un grosso casale di tufo con altre costruzioni annesse che proiettavano la loroombra sulla rupe vicina. Il camioncino si fermò lì,dal casale uscì un uomo basso e tarchiato che salutò il legnaiolo e con l’aiuto di loro due presero a scaricare la legna e ad accatastarla in una caverna che fungeva da ripostiglio. Avevano guadagnato quel passaggio dando una mano al camionista e ora al locandiere a sistemare la legna. Così furono invitati ad una sosta e un po’ di ristoro. Bevvero vino e mangiarono pane con salsicce secche. L’oste era più anziano di loro e mentre mangiavano prese a raccontare della grande guerra che aveva combattuto da soldato. Raccontò delle sofferenze, delle privazioni, dei morti intorno a lui. Si era salvato fortunosamente ed era tornato a casa scheletrito per la fame e il freddo che aveva sofferto: era un reduce della rotta di Caporetto. Gli austriaci con i tedeschi che erano venuti a dar manforte, avevano attaccato con furia assoluta dopo un bombardamento micidiale della artiglieria. In qualche settore gli italiani avevano provato a resistere, poi si verificò uno sbandamento generale. Furono raggiunti, si difesero con le armi, molti morirono colpiti dal fuoco ravvicinato nemico, altri tra cui lui furono fatti prigionieri. Li portarono in campi di concentramento in Austria, erano centinaia di migliaia. Lì continuarono a patire, come e più della trincea,fame e privazioni. Trattati male dai carcerieri, e soprattutto dalla patria che li considerava imbelli, e traditori. Così si proibiva ai familiari e anche alla Croce Rossa di inviare pacchi viveri e altri generi di conforto. Quelli che in qualche modo venivano mandati erano fermati alla frontiera italiana. Ne morirono altre migliaia in quei campi, prima che la fine della guerra consentisse loro di tornare a casa, malvisti.L’oste parlava e le parole uscivano con ardore come di ferita profonda non guarita. Continuarono a parlare di guerre, di quella ancora in corso, di politica, che poteva essere cosa non prudente, ma anche l’oste era socialista, così si abbandonarono a sognare il futuro prossimo, ormai in pace, dove i loro ideali di pacifismo, di fratellanza tra i popoli si sarebbero dovuti per forza realizzare. Fumavano sigarette coloniali a buon prezzo, e la stanza si riempì dell’odore profumato del tabacco. L’oste non sembrava voler porre fine aquel cenacolo, era mattino, oltre le consuete faccende di riassetto non aveva altro da fare e non c’era da preparare un gran che in cucina, perché i clienti della locanda si erano rarefatti in quel torno di tempo periglioso. Quando l’oste ebbe finito di parlare i due aspettarono in silenzio senza aggiungere altro, non sembrava loro opportuno e gentile alzarsi, ringraziare ed andarsene, se questi avesse avuto ancora voglia di stare con loro.Passò qualche altro istante l’oste si alzò dalla sedia e si mise a riordinare il tavolo dove avevano mangiato, e mentre era intento a questa faccenda disse loro che forse era opportuno che si rimettessero in viaggio. Così si accomiatarono, ringraziando per il ristoro e rimandando ad altra occasione, a Dio piacendo, quella gradevole conversazione. L’oste li salutò, chiese se volessero portare con loro qualcosa da mangiare, ma questi rifiutarono. Avevano già profittato troppo della sua gentilezza. Si salutarono da compagni socialisti, con la speranza di un tempo migliore quanto prima. Si rimisero sulla strada, accanto correva la ferrovia, vi passavano trenini della linea Roma-Viterbo che partivano dalla stazione di piazzale Flaminio. Servivano ai pendolari che dal territorio laziale si recavano il mattino aRoma per fare ritorno a casa, la sera. La linea ferrata era stata costruita ai primi del 900, poi ammodernata negli anni successivi. In ampi tratti i costruttori utilizzarono come basamento dove stendere le rotaie il selciato della Flaminia, che si rivelò essere di buona fattura e ingrado di sostenere il traffico dei treni: un ulteriore prova del valore degli ingegneri romani. Presero a camminare sul ciglio della strada, il sole era ormai alto nel cielo e le ore del mattino correvano, bisognava allungare il passo. Quando sentivano rumori di camion in arrivo lasciavano la strada e proseguivano per la campagna intorno. Il paesaggio era piacevole a vedersi, l’avrebbero sentita e goduta di più quella sensazione, se non avessero avuto da camminare con passo alacre e con la preoccupazione di brutti incontri. Dovevano anche essere pronti ad approfittare di qualsiasi occasione che gli si fosse presentata per proseguire il viaggio con altro mezzo che non fosse le loro gambe. Forse il treno che ad intervalli regolari vedevano transitare vicino a loro, o una vettura di qualsiasi tipo, magari come quella che li aveva trasportati la mattina. Sarebbero passate anche delle corriere, ma discorrendo di questa possibilità decisero che sarebbe stato pericoloso salirci, più soggette quelle a controlli nelle fermate canoniche. I tempi erano difficili con i tedeschi che stavano calando in Italia dal Brennero ad aggiungersi a quelli già presenti che si erano affiancati ai nostri per contrastare lo sbarco in Sicilia e le altreoffensive degli alleati su vari fronti della penisola. In più si sentiva parlare di una ricostituzione del partito fascista e quelli che aderivano avevano vendette da consumare e assoluta intransigenza con coloro che avevano aderito al governo del sud del Savoia, o che comunque non si mostravano entusiasti della ristabilita alleanza con i tedeschi. Nonostante questi discorsi e i pensieri preoccupati che generavano non potevano fare a meno di ammirare il lavoro nei campi cui i contadini erano intenti. Raccoglievano l’uva ancora sui tralci dopo l’iniziale vendemmia di fine agosto, erano grappoli maturi, alcuni sbeccati dagli uccelli. E si sentiva nell’aria quando passavano vicino ai casolari, il profumo del mosto che si spandeva dalle cantine. Immaginavano le grosse botti di quercia che cominciavano a ribollire e prima il gran lavoro dei contadini sull’uva appena colta. A Zeno veniva in mente la figura silenziosa della madre in cantina, intenta a riporre nell’ampio vascone l’uva raccolta nel campo della Doria e in quello del Rosciolo, i due campetti che le avevano lasciato i suoi come dote, quando si era sposata con Umberto. Testarda nella scelta nonostante le avessero preferito il figlio di un possidente che la voleva in moglie.Silenziosa, rispettosa ma testarda e non ci fu niente da fare, si prese il suo Umberto e ci mise al mondo dieci figli. Li vide scomparire molti, uno ad uno, chi ancora bambino, chi in guerra, gli altri a fare i muratori in giro per l’Italia. Chi poté venne a morire sul letto della madre dove erano nati, e lei silenziosa li accolse uno ad uno come quando erano venuti al mondo. Non lacrime sul suo viso, ma schianti dentro che non facevano rumore, solo aggiungevano una ruga in più, sino all’ultima quando se ne andò anche Umberto. Sul far dell’alba continuò ad andare nel campetto del Rosciolo quello più vicino al paese sino alla fine quando le forze l’abbandonarono e rimase in casa in attesa di ricongiungersi con i figli e Umberto di lì a poco. Ma Zeno non sapeva tutte le cose che sarebbero accadute e che in gran parte non avrebbe visto. La vedeva allora in quel giorno di ottobre ancora giovane in cantina a pestare con i piedi nudi l’uva raccolta nel vascone,da un pertugio usciva il liquido colorato che si raccoglieva in recipienti preparati lì accanto. Poi sarebbe stato versato nelle grandi botti dove il mosto sarebbe andato riempendosi di vita. Bolliva di felicità il mosto per sé e per il conforto che avrebbe dato agli uomini una volta pronto sulle loro tavole, avrebbe accompagnato il cibo, e nelle lunghe sere d’inverno sarebbe sceso come balsamo nelle viscere regalando un tepore al cuore e alla mente che li avrebbe accompagnati al breve sonno prima di iniziare il giorno dopo, la stessa fatica di ieri. Zeno era il primogenito, il più amato,anche se l’Angelina non lo lasciava vedere e quell’amore Zeno se lo portava addosso come una coperta, sempre: le mattine d’inverno con la “caldarella” sulle spalle che lacerava la pelle, in guerra su quei carri che i generali chiamavano armati ma erano poco più che scatole di latta. Una volta arrivato a Sigillo sarebbe passato da lei, dopo aver abbracciato la Regina e il figlio, avrebbe salito le ripide scale che portavano al cucinone, l’avrebbe trovata lì accanto al fuoco del camino con quel lungo tubo di ferro forato in punta, con cui soffiando attizzava il fuoco. Lui l’avrebbe chiamata “mamma come state?”, lei l’avrebbe guardato dicendo “sei tornato!”.Dentro, ad entrambi sisarebbescioltoungrumo di dolore,il dolore della vita che in quel momento trovava ristoro.
Attraversarono Labaro e Prima Porta, costeggiarono il grande cimitero che era sorto da poco e raccoglieva i defunti che non trovavano più posto nel cimitero monumentale del Verano. Da quando avevano lasciato le mura aureliane, erano passati davanti a due case cantoniere. Erano queste, postazioni dell’Anas succedentesi qualche decina di chilometri l’una dall’altra che ospitavano un cantoniere con la sua famiglia, a guardia e manutenzione del tratto di strada affidata. Ricordavano le mansiones di duemila anni prima che con analoga o forse maggiore efficienza svolgevano lo stesso ruolo. Allora saranno stati schiavi invece di stipendiati dello Stato. Da un pò la strada aveva abbandonato la rupe sotto la quale aveva corso in quei primi chilometri e si affacciava alla campagna aperta circostante. Un territorio pianeggiante mosso da bassi rilievi, non ancora colline, con casolari sparsi da cui i contadini muovevano per il lavoro nei campi. Non grandi paesi o città in quel territorio del Lazio che guardava a nord-est, come se la vicinanza con Roma avesse impedito nei millenni la costruzione di qualcosa che potesse competere o rivaleggiare con la metropoli. E se ci avevano provato mal gliene incolse. Bisognava arrivare a Civita Castellana parecchi chilometri più avanti, per incontrare un centro abitato con dignità di cittadina. Per intanto Silvio e Zeno continuavano a camminare alacremente lungo la via e dopo meno di due ore arrivarono a Sacrofano-Malborghetto. Avevano percorso in tutto 20 chilometri dall’uscita da piazza del popolo, non avevano incontrato nessuno lungo la via oltre a qualche carro agricolo e contadini che si recavano nei campi.Quando sentivano a distanza il rumore di mezzi meccanici, camion o autovetture, lasciavano la strada prima del loro apparire.Ora arrivati a Sacrofano decisero di fermarsi per riprendere fiato e pensare come proseguire. Di lato alla stradacorreva la linea ferroviaria, e oltre,un monumento con l’aspetto di un imponente casale. Non era un casale ma una costruzione romana del IV secolo a.C., più esattamente un tetrapilo, un arco tetrafronte, come l’avevano battezzato gli archeologi. Un tempo al di sotto degli archi si incrociavano due strade: la Flaminia e la Veientana. Poi nel corso dei secoli, il monumento era diventato chiesa, poi residenza degli Orsini in alternanza con i Colonna, ancora, stazione di posta, osteria, fino al suo recupero originario di pochi anni prima. Era mattino inoltrato, Zeno e Silvio si fermarono a ridosso del monumento per riposarsi un po’ e pensare a come proseguire il viaggio. A pochi metri c’era la stazione ferroviaria, i treni passavano sull’unico binario nei due sensi, alternandosi con brevi soste nelle stazioni. Si avvicinarono alla stazione e studiarono la situazione. C’era poca gente in giro, non militari o chiunque altro avesse titolo per chiedere chi fossero e dove stessero andando. Non erano malfattori,ma Zeno formalmente era ancora un militare che indossava abiti civili. D’altra parte qual’era in quel momento l’autorità cui far riferimento? Il re sen’era andato a Brindisi con tutto lo stato maggiore, il Duce aveva proclamato la Repubblica al Nord, e in Italia scorrazzavano tedeschi e truppe alleate in guerra tra di loro. Per questoquelli che avevano potuto, dismessi gli abiti militari se ne stavano tornando alle loro case. Fortunati coloro che si trovavano nel territorio nazionale, questi potevano trovare il modo di tornarsene o almeno provarci. In quella generale confusione c’era il pericolo dei tedeschi che si sentivano traditi e in più occasioni avevano dimostrato di non erano teneri con i camerati di ieri, ora diventati traditori ai loro occhi. L’editto di Badoglio era suonato oscuro su come le nostre truppe si sarebbero dovute comportare. Era già arrivata qualche voce su rappresaglie in Iuguslavia e nelle isole greche a dannodelle nostre truppe.E fresco era il ricordo di quanto era successo poche settimane prima a porta san Paolo, con il sacrificio di un distaccamento di nostri soldati che si erano opposti all’ingresso dei tedeschi in Roma. Per tutto questo i nostri erano guardinghi, e poi oltre i tedeschi, c’erano in giro sbandati e fuorilegge che in tempi perigliosi proliferano. Le armi che Zeno portava con sé davano loro un qualche conforto, un accenno di sicurezza, la possibilità di un’estrema difesa, in caso di pericolo. O anche per qualcosa di più importante che lui socialista intravedeva.
Videro passare il treno diretto a Roma, portava poca gente nelle altrettante poche carrozze. Balenò nella loro mente un pensiero…. poca gente sul treno….. era una linea ferroviaria secondaria, locale……si comunicarono con gli occhi prima che con le parole… ci si poteva provare…… L’ora del mattino era tarda, chi doveva andare a Roma per lavoro o altro era già partito da tempo. Aspettarono di vedere arrivare il treno proveniente da Roma diretto a Viterbo. Avrebbero dovuto aspettare perché il binario era unico e i treni sostavano nelle stazioni per alternarsi.Arrivò dopo circa un’ora. A quel punto Silvio e Zeno si avvicinarono. La stazione era piccola, un edificio basso con due aperture, una verso la strada, l’altra verso i binari. Nella stanza una panca per il riposo degli umani e su una parete un’apertura con davanzale, dietro stava il bigliettaio. Oltre loro, nella stazioncina c’erano altre tre persone, fecero con loro il biglietto dal casellante che fungeva da cassiere e controllore del traffico, coadiuvato da un assistente che si incaricava di abbassare le sbarre su una strada da presso che attraversava il binario. Fatti i biglietti sisedettero sulla panca mentre gli altri uscirono all’esterno ad aspettare il treno arrivare. Dopo un po’ arrivò sferragliando, annunciato da una campanella elettrica posta sotto la pensilina, gentile riparo per i viaggiatori dal sole e dalle intemperie. Si aprirono le porte delle tre carrozze, Zeno e Silvio salirono su quella di mezzo. Nello scompartimento su un breve corridoio centrale si aprivano quattro settori, in ognuno quattro posti. Si sedettero, oltre loro due c’erano altre due persone, non insieme, uno con una valigetta tipo quelle che portano i rappresentanti di commercio e l’altro anonimo, dal volto tirato.Dopo alcuni minuti si sentì il fischio del casellante che si era avvicinato ai bordi del binario. Aveva indossato il cappello rosso segno di autorità e del ruolo che lo accomunava agli altri di tutta Italia che chiamiamo capistazione, e tutti si mettevano quel copricapo quando si trattava di far partire il treno. Quasi che il berretto rosso avesse come un potere autonomo, il solo che poteva regolare il movimento dei treni e da esso discendesse la dignità e il prestigio per coloro che erano chiamati ad indossarlo. Semplici esecutori di una funzione stabilita altrove, di cui il berretto rosso era il demiurgo. Così quando il treno era partito e loro rientravano nella guardiola, si toglievano il capello e lo riponevano con cura, pronto ad essere ripreso per il nuovo treno in arrivo. Tutto era come la liturgia di una nuova religione che aveva costruito i treni, le ferrovie, le locomotive a vapore e poi elettriche: una religione laica della ragione, dello sviluppo, delle realizzazioni umane progressive e mai dome. Ma siccome il sacro che buttiamo dalla finestra della ragione, deve rientrare perché radicato nell’anima dell’uomo, ecco che si ripresenta con il rito. E quello del capostazione era un rito, e lui un officiante, e quelli intorno,comunque coinvolti i fedeli. E alla fine di tutto il treno può partire come se avesse ricevuto una benedizione. Filarono via tra campi e boschi bagnati da una pioggerillina che cominciò a scendere da un cielo nuvoloso, con ampi squarci di sereno. Nella carrozza si stava bene, non faceva freddo, Zeno e Silvio posarono il pastrano sui sedili liberi e presero qualcosa da bere e mangiare dalla gavetta, poi fumarono sigarette. La ferrovia correva,perampi tratti, accanto alla strada che avevano lasciato per salire sul treno. Dal finestrino videro passare alcuni camion militari diretti a Roma: erano tedeschi! Dopo una decina di chilometri il treno si fermò in un posto chiamato “la rosta”.L’edificio della stazione era una costruzione massiccia tipo fattoria di quelle che si incontrano nella campagna romana, ingentilito da fiori sulle finestre, intorno non c’erano altre case. Sporgendosi dal finestrino videro che al di là della stazione, dalla strada si dipartiva un percorso secondario per un paese che non appariva alla vista: “Riano”. Non scese nessuno dal treno, e nessuno salì. Il treno riprese ad andare, non un gran correre, poco più di una passeggiata veloce. Era così,per le tante curve, per la motrice costruita per il passo del podista, per il tracciato che non sopportava velocità. Così chi aveva fretta si innervosiva, altri no, contenti del trascorrere del tempo che li liberava dall’impegno: comeuna vacanza dall’assurdità del fare. Il territorio intorno era una “pianura mossa”, cioè non variava di molto l’altitudine del percorso , ma questo si svolgeva in un ambiente caratterizzato da continui rilievi collinari. Procedendo, sempre più vicino appariva il profilo del monte Soratte, imponente pur non essendo altissimo,perché intorno su quella pianura c’era solo quella montagna a svettare verso il cielo. Raccontavano che pochi mesi prima, Mussolini di ritorno da Feltre dove aveva incontrato Hitler per un esame delle sorti del conflitto, a bordo dell’areo che dicevano guidato da lui, ma le malelingue aggiungevano “sotto lo sguardo attento di unasso dell’aviazione”, appena sorpassato il Soratte, ebbe la visione di un fumo in lontananza che saliva sul cielo di Roma.Nella testa gli balenò un pensiero che divenne presto certezza: gli alleati avevano per la prima volta bombardato Roma, nonostante il Papa. Dissero poi che sbiancasse in volto, e forse fu allora che in cuor suo pensò di abbandonare il fardello di quella situazione insostenibile in cui si era cacciato. Di lì a poco avrebbe indetto la riunione del Gran Consiglio del Fascismo che lo avrebbe dimissionatoelui non fece niente per evitarlo. Lasciata la località“La Rosta” il treno proseguì la corsa arrivando poco dopo chilometri a Castelnuovo di Porto. Lì una nuova fermata, e di nuovo in marcia sino a Morlupo. Erano salite altre persone in quelle stazioni e sulla loro carrozza accanto ai due saliti con loro a Sacrofano ora sedevano una donna e davanti un ragazzo, ciascuno estraneo all’altro. Sulla giacca del ragazzo troneggiava un gagliardetto fascista.Il giovane, appariva tranquillo, seduto composto, un po’ lontano ma difronte a Zeno e Silvio. Portava con sé uno zaino pesante a giudicare dall’impegno che aveva messo nel toglierselo e deporlo nel sedile accanto. Faceva pensare ad un viaggio importante, forse lontano, con la necessità di portare con sé il necessario per una autonomia di non pochi giorni, come di uno che tenta altrove la fortuna della vita. Ma gli abiti indosso puliti, i calzoni stirati da mano femminile,probabilmente una madre premurosa, i capelli ben pettinati, con una riga da un lato, sì che quelli della parte più lunga scendevano morbidi sul viso e lui ogni tanto li aggiustava con un movimento della mano come una carezza delicata. Tutto parlava di una buona condizione familiare, di sentimenti con quelli di casa. Dunque dove era diretto da solo, con quello zaino pesante che sapeva di cosa dissonante da tutto il resto che traspariva dalla sua persona? Una donna da raggiungere, un lavoro lontano da Roma, una sede universitaria, un viaggio? Sedeva davanti alla donna che era salita come lui nella stazione di Morlupo. Lei era una signora di mezza età, che si rivelò da subito chiacchierina. Infatti cominciò a dire ad alta voce del tempo, della pioggia, dei brutti momenti che si stavano vivendo, dei… La carrozza era piccola, erano in sei persone lì dentro, anche se in scompartimenti diversi , così le parole erano un invito ad una risposta da parte degli altri, ma solo il ragazzo che le era seduto davanti si sentì obbligato a rispondere con segni del viso atteggiato a contenuti sorrisi e ad un leggero fastidio che l’educazione non permetteva di palesarsi oltre il consentito: cosi appariva. Silvio e Zeno se ne rimasero tra di loro, così gli altri due,ascoltavano senza parlare. Lei raccontava che doveva recarsi a Viterbo da una figlia sposata lì con il maresciallo dei carabinieri della stazione locale, aspettava un bambino la figlia e lei andava lì ad assisterla per il parto imminente. Ebbe sorrisi di partecipazione anche da parte degli altri, ma evidentemente non bastavano alla sua necessità di rapporto e avendo davanti a sé il ragazzo cominciò a chiedergli dove fosse diretto lui, così giovane con quello zaino. Non disse niente del gagliardetto sulla giacca che forse non aveva nemmeno notato e che invece i nostri avevano subito visto e la cosa li aveva resi più guardinghi. Alle domande della donna, all’inizio il ragazzo rispose educato, ma a mezza bocca , ma poi dietro le insistenze di lei rispose ad alta voce udibile da tutti: “vado a raggiungere Mussolini a Salò”. Scese il gelo nella carrozza, Silvio e Zeno fecero finta di non aver sentito, così gli altri due,la donna fece un volto preoccupato e rimase in silenzio. Lui continuò come parlando tra sé, come una confessione, anche se a seguito della domanda della donna.“Vede cara signora, sono diretto a Civita Castellana,mi devo incontrare con un gruppo di amici tutti provenienti dal Liceo Visconti che frequentiamo a Roma. Ognuno con mezzi diversi e da soli per evitare di dover rendere conto a chicchessia. Confluiamo lì e poi andremo al nord dove il duce dopo la liberazione dalla prigione del Gran Sasso, ha ricostituito il partito fascista e ha fondato la Repubblica Sociale.” Continuava a parlare pacatamente senza interloquire, come una dichiarazione verso gli altri e una riconferma per sé stesso della decisione presa, ma il viso era triste, non c’era fanatismo o entusiasmo come se quel passo fosse frutto di una scelta razionale, più che del cuore. Una cosa che andava fatta anche se non ci si credeva fino in fondo, come una scelta morale, ideale, senza un fine o la speranza di cambiare le sorti del conflitto. Continuò rivolto alla donna che lo ascoltava un pò sgomenta senza la forza di dire alcunché.“Vede signora noi siamo stati educati ai valori della famiglia, della patria, dell’onore, del coraggio. Abbiamo visto con emozione crescente il nome e la fortuna d’Italia tornare in alto al pari delle altre nazioni: queste finalmente ci rispettavano. Abbiamo allargato i confini del paese, la gente ha cominciato ad emigrare di meno in giro per il mondo, spinti dal bisogno e dalla povertà, i contadini hanno potuto coltivare nuove terre sottratte al secolare abbandono, oppure in quelle vergini d’Africa. E’ cresciuta una nuova gioventù, con più entusiasmo, e…………….. Poi è arrivata la guerra e le cose sono arrivate a questo punto. E’ crollato tutto, gli americani ci bombardano e ci invadono, i tedeschi stanno occupando da nord il paese , il re ha tradito ed è fuggito al sud achiedere protezione a coloro con cui eravamo in guerra. La gente sta perdendo tutto: le cose, i valori, la dignità, la vita. Credo che sia il tempo per i giovani di prendere coscienza di quanto accade e di scelte radicali. Noi abbiamo fatto un giuramento di fedeltà e coerenza, non ce la sentiamo di rinnegare quello in cui ci hanno educato e in cui abbiamo creduto, di abbandonare quest’uomo che ci ha guidato nel bene e nel male, osannato fino a ieri da tutti, ed ora da tutti vilipeso, noi restiamo fedeli alla parola data. Altri nostri compagni di scuola hanno fatto la scelta di andare sui monti e combattere dalla parte degli alleati, hanno scelto così e a loro va il nostro rispetto, ci troveremo gli uni contro gli altri ed eravamo tutti fratelli”. Disse queste cose con tristezza, come consapevole della inevitabilità di una scelta qualunque fosse:per lui di andare dalla parte che ogni giorno che passava si mostrava perdenteperdente, ma a vent’anni si va a cercar la bella morte se quello è il nostro destino. Scese un’atmosfera pesante nella carrozza, nessuno si azzardò a dire nulla, più di tutti la donna dirimpettaio che appariva quasi sconvolta, nemmeno il suo cuore di mamma poteva muoverla a dire, così fu per gli altri. Il treno intanto continuava il suo percorso alternando i tratti di contiguità con la strada a quelli di inabissamento nei boschi circostanti. Arrivati in prossimità di Rignano Flaminio riapparve il nastro d’asfalto con a lato, per lungo tratto, il lastricato di pietre della originaria via Flaminia , e l’asfalto spesso debordava a ricoprire quelle sante testimonianze, quasi metafora dei nuovi barbari che dal cielo edalmare gli uni e dal Brennero gli altri, stavano invadendo il nuovo ed effimero impero orgogliosamente e infelicemente ricostituito, e di cui le parate militari di via dei fori imperiali avevano celebrato i trionfi. La stazione successiva sarebbe stata S.Oreste, poco oltre l’abitato. Da lì il treno dopo una decina di chilometri sarebbe arrivato a Civita Castellana. Lì sarebbe sceso il giovane fascista, e lì la Flaminia incrociava la Cassia, dunque Zeno e Silvio pensarono che avrebbero potuto trovare gente in quella stazione. Ritennero che fosse più prudente scendere a S. Oreste e una volta scesi ragionare su come procedere. Così fecero e con loro il giovane pallido che era salito con loro a Sacrofano. Quando il treno ripartì, loro ancora sotto la pensilina, videro lo sguardo del giovane fascista che li fissava, come un saluto…. A Zeno sembrò di vedervi espresso un dubbio, come un ripensamento, e dunque il pensiero che sarebbe potuto scendere con loro per tornare a casa. Tra poco sarebbe arrivato a Civita Castellana, all’incontro con gli altri per andare tutti insieme al Nord. Dopo non ci sarebbe stato più tempo per tornare. Zeno pensò mosso dalla pietà per quel giovane, che aveva sbagliato a stare zitto, avrebbe dovuto dire parole, tentare di scalfire quella determinazione che non poteva essere granitica, magari solo una infatuazione giovanile, una fascinazione che avrebbe avuto vita breve. Non lo aveva fatto, aveva avuto timore di non riuscire ad entrare in sintonia con quel ragazzo così diverso da lui per educazione e censo e tante altre cose. Era andata così, ormai non si poteva fare più niente. Provò nel cuore una pena che non si dissolse. Il terreno era ancora bagnato, ma il sole riapparso tra le nuvole brillava i prati di luce. Vicino si ergeva la mole massiccia del monte Soratte, di cui la stazione di S.Oreste era il riferimento ferroviario. Forse S.Oreste era il paese che si intravedeva in alto tra le falde della montagna. Intorno dominava la vista una campagna coltivata, a tatti collinare, in continuità di aspetto con quella che avevano fin lì percorso. La presenza dell’uomo era discreta, non invadente, come rispettosa del creato dove Qualcuno lo aveva posto. Non era ancora il tempo della liberazione dalla colpa di aver mangiato la mela. Quella sarebbe venuta dopo, ne avrebbe risentito anche quell’angolo di mondo.
C’era un viottolo immerso nella vegetazione che si dipartiva dalla pensilina. Si capiva che era parte della stazione, conduceva ad un servizio per le necessità dei viaggiatori che erano scesi o che aspettavano il treno. Non cattivi odori, grande civiltà, nonostante l’essenzialità della cosa: una turca nel casotto che aveva un fermino metallico sulla porta all’interno per l’intimità della persona. Un rubinetto che immetteva acqua nel buco della turca per la pulizia dopo i bisogni, un sacco con polvere di soda bianca, forse, o altro, per cospargere il pavimento da usare dagli addetti? O da clienti educati? Fattosta che l’ambiente era pulito e non maleodorante. La luce da vetri sopra la porta, l’aria che se la porta era chiusa circolava da una finestrella senza vetri. Fuori una vaschetta ad altezza d’uomo con un rubinetto sopra per lavare le mani, reduci da faccende necessarie ma non celebrabili. Davanti al casotto ma ad una certa distanza un tavolo di pietra con intorno sedili semprein pietra, sopra un pergolato da cui pendevano grappoli di uva nera. A pensarci l’eden non doveva essere molto diverso da questo posto nascosto in un anfratto, immerso nel verde della natura, di lato ad un’anonima stazione di campagna. Anche se molti, tutti, avrebbero detto, se gli fosse occorso di vederlo, che si stava parlando semplicemente di un bagno.
Lo avevano percorso quel viottolo Zeno e Silvio, seguiti dal giovane pallido, intuendo che alla fine della stradina avrebbero trovato qualcosa che aveva a che fare con l’astinenza dal mattino dei bisogni corporali.Dopo, si sedettero sul tavolo di pietra per ragionare e godere l’amenità del posto e il cibo gratuito che i grappoli pendenti sulla testa garantivano. Tirarono fuori dalle gavette ciò che era rimasto del cibo, l’acqua la presero dal rubinetto a lato. Colsero l’uvae misero tutto sulla giacca di Silvio posta amò di tovaglia sulla pietra:il pasto era pronto. Il giovane pallido che li aveva seguiti con discrezione, chiese di sedersi con loro e si presentò: “ mi chiamo DomenicoEttorre, sono studente di Medicina a Roma, la mia famiglia è di Leonessa di Rieti , ho uno zio vescovo a Nocera Umbra, sto andando da lui.” Raccontò che lo zio oltre che essere vescovo, era o meglio era stato, un personaggio importante della Chiesa, segretario dell’azione cattolica nazionale, intimo di altri prelati del vaticano, esponente di una famiglia importante, originaria di Leonessa. Nella sua missione o carriera se si vuole, era incappatonelle conseguenze del concordato tra stato e chiesa, che aveva inaugurato un nuovo rapporto tra l’Italia e il Vaticano sino ad allora in conflitto. Era nota al regime la sua vicinanza ai circoli antifascisti del Vaticano, anzi lui ne era un esponente di spicco. Fu chiesta la sua testa, come quella di don Sturzo ed altri, il cardinale Gasparri le concesse e zio Ettorre decadde dalle sue cariche, in particolare da quella di segretario generale della azione cattolica che di fatto fu soppressa e fu esiliato in periferia a ricoprire il ruolo di vescovo nella diocesi di Nocera Umbra, dove comunque continuò a segnalarsi per la coerenza con i suoi principi che lo avevano allontanato da Roma. Lì Domenico era diretto, fuggiasco da una cartolina precetto che era arrivata a casa dei genitori. Gli ingiungeva di presentarsi al distretto militare di Rieti per essere arruolato. “Ma dove?” si era chiesto Domenico” in qualeesercito mi manderanno, in questo momento in cui si sta sfaldando tutto? Arrivano i tedeschi dal nord, gli alleati dal sud, il re fuggito con tutto lo stato maggiore a Brindisi, Mussolini a Salò con la Repubblica Sociale.”Così aveva deciso di raggiungere lo zio vescovo a Nocera a chiedergli consiglio e nel contempo a nasconderlo nell’episcopio, sino a quando fosse più chiaro cosa era bene fare. Aveva fatto quel tratto di strada in treno maerasceso in quella stazioncina di s.Oreste, per proseguire a piedi. Non si fidava a farsi vedere, temeva che qualcuno lo denunciasse, era un renitente alla leva. Sapeva che in tempi di guerra poteva incorrere nella pena di morte. Si sarebbe tenuto anche lontano dalle strade, aveva con sé nello zaino delle provviste bastevoli per alcuni giorni, quanti ce nesarebbero voluti per raggiungere a piedi o con qualche mezzo di fortuna Nocera. La fatica non lospaventava, né le avversità del tempo, era giovane, si sentiva forte,d’estate amava camminare per i monti dell’Appennino, dunque………………………………… si poteva fare.
Si era confidato perché avevano l’aspetto di brave persone e anche loro gli sembravano in fuga da qualcosa. Gli offrirono di proseguire insieme, perché la strada da percorrere era la stessa, ma egli declinò l’invito, dentro di sé pensava che il suo passo era più celere rispetto a loro, lo stare insieme avrebbe rallentato il suo andare e dasolo avrebbe fuggito meglio eventuali pericoli. Inoltre avrebbe dato meno nell’occhio. Rimase con loro a consumare il pasto comune, poi presecongedo, desideroso di riprendere il cammino,ese ne andò.
Zeno e Silvio finirono di mangiare, stettero ancora un po’, poi decisero anche loro di rimettersi in marcia. Zeno si voltò ad imprimere nella mente quel luogo, vi aveva provato un senso di pace, come una pausa dai pensieri che si agitavano nella mente: la preoccupazione per i pericoli del viaggio intrapreso,con le necessità del cibo da procurare, dei posti per il riposo del corpo…… E arrivati a casa, se tutto fosse andato bene, cosa avrebbe trovato? Negli ultimi mesi aveva potuto dare e ricevere poche notizie. Per certo sapeva che in paese si era costituito un presidio di tedeschi, e i giovani in età da cartolina di precetto si nascondevano per evitare di essere arruolati e inviati a Nord nel costituendo esercito della Repubblica di Salò. In paese si aspettava l’arrivo degli americani che insieme agli alleati stavano risalendo la penisola da Sud, dalla Sicilia dove erano sbarcaticon Mussolini ancora a Roma al comando, e da Salerno dove erano sbarcati il giorno della dichiarazione dell’armistizio. Infine avevano saputo che la gente del paese era in animo di sfollare in montagna per evitare bombardamenti e rappresaglie. Ma in quel breve momento di sosta si era dissolto tutto… loro due, quel giovane con loro, il pergolato che offriva riparo dal sole e cibo per il corpo, quel tavolo di pietra che sapeva di solidità resistente al tempo, come messaggio di immortalità, avrebbe detto un filosofo o un poeta. Cambiava colore e temperatura al volgere delle ore, come avesse una sua vita, da quando qualcuno lo aveva tirato fuori dal fianco della montagna nobile che lo conteneva. Quella fatica dell’uomo era poi diventata arte nel sagomarlo e imbellirlo, togliendo impurità,si che splendesse in tutto il suo fulgore marmoreo. Fu come averlosottratto dal mondo inorganico e consegnato al mondo dei viventi. Inserito in quel minimo angolo di mondo, nascosto ai più,aveva ingentilito la natura intorno.
Zeno, nel profondo di sé, come in altre rare circostanze,in quel posto aveva sentito calare in luiun senso di pace come un dissolvimento di tutti i nodi del vivere. Un’armonia d’amore che governa le cose e il cosmo con noi e sopra di noi, una sensazione di benessere in una pausa del vivere, con il cuore che si placa e, cede al bisogno di lasciarsi andare al mistero superiore che ci avvolge. Era stato così al primo incontro d’amore con la sua Regina , o nell’abbraccio con i compagni disventura salvi da una granata esplosa sulla scatola di latta che era il loro carro armato, o quando aveva issato per la prima volta il tricolore sul tetto della casa costruita. A Zeno frullavano in testa quei pensieri, appena abbozzati, non aveva gli strumenti per descriverli compiutamente, aveva fatto studi sino alla sesta che era una specie di scuola media di oggi. Era stato bravo, intelligente, il migliore di tutti, aveva compreso che c’era un mondo di idee e sapere che lo attirava, ma estraneo alla sua vita, alla sua condizione. Ciononostante la sua mente era pronta a ricevere suggestioni, a cimentarsi con quelle, ad entrarci dentro percorrendo tragitti propri, estranei a quelli della cultura riconosciuta. Dunque si chiedeva: la sensazione provata in quel luogo e le altresimili della sua vita erano semplicemente uno stato di soddisfazione, la felicità di unmomento, la liberazione da uno scampato pericolo? Avvertiva che si trattava di qualcosa di più, come un uscire da sè, da un sé immerso nelle faccende della vita, nella lotta di ogni giorno. Qualcunoavrebbero potuto aggiungere il sélogorato nella mente e nel corpo per la gran corsa dietro i falsi Dei che ammorbano l’anima degli uomini.Forse avrebbero concluso che in quei momenti si saliva, i piedi non calpestavano la terra, si ristabiliva il patto dimenticato con il cosmo, con l’amore che tutto muove. Dipiù, quasi un guardarsi dal di fuori, la percezione che quello stato d’animo era la via giusta per la conoscenza.
Da lì, dalla stazione di S.Oreste, la strada, per un lungo tratto correva più che nel tratto precedente, a ridosso della ferrovia che avrebbe lasciato all’altezza di Civita Castellana. I due tracciati si snodavano paralleli in mezzo alla campagna. Rari casolari di tufo massicci, campi dove nella stagione buona cresceva frumento, orzo e sorgu, filari di vite, noccioli, altre piante da frutto, pini intorno ai casolari quelli dal lungo fusto con la chioma in alto che si vedono a Roma, raccontati dalla musica di Ottorino Respighi. Non ancora i pini d’Arizona che avremmo importato dall’America a guerra persa e con lasovranitàridotta controllata dagli americani, come sarebbe statodella lingua, delle canzoni, della musica.E’ sempre successo così il vincitore vince con le armi, poi consolida la vittoria con la cultura, i costumi, e tutto il resto, emarginando quelli autoctoni. Non così si comportavano i romani che infatti durarono in un arco di tempo millenario. Imponevano il latino come lingua ufficiale ma dove trovavanouna cultura avanzata consentivano l’uso della lingua locale come il greco per l’Oriente, lasciavano gli usi e i costumi, la religione, le leggi dei conquistati. Addirittura assimilavano le divinità stranierenel loro Pantheon. Anche per questo dominarono il mondo per così tanto tempo.
Dopo Rignano Flaminio Zeno e Silvio non incontrarono per chilometri altri paesi. Quel tratto di territorio appariva deserto di insediamenti umani oltre ai casolari della campagna. Il terreno era leggermente rilevato rispetto al precedente come si trattasse di un basso altopiano. Che’ infatti la strada sarebbe andata in discesa quando più avanti avrebbe raggiunto il primo paese: Borghetto. Poco movimento lungo la strada, i treni della linea Roma-Viterbo si alternavano con saltuaria frequenza. Quando sentivano avvicinarsi il rumore di camion o altri veicolipesanti prendevano per la campagna e si sottraevano alla vista. Spesso erano camion militari tedeschi.Si era fatto pomeriggio inoltrato quando arrivarono al bivio per Civita Castellana. Lì la Flaminia correva diritta verso nord-est passando sotto un ponte della ferrovia che in quel punto si dissociava dalla strada per raggiungere Civita e da lì Viterbo. Però nel luogo della separazione, quasi un gesto d’amore disperato della Flaminia, si distaccava da essa un diverticolo che seguiva per un tratto la linea ferrataper raggiungere poi le case di Civita che si intravedevano sulla rupe di tufo che le sorreggeva e proseguiva oltre, per l’incontro con la Cassia diretta in Toscana a Siena fino a Firenze. Che meraviglia questo antico reticolo viario disegnato dai romani che collegava l’Urbe con tutto il mondo conosciuto. Intersezioni viarie cheunivano genti diverse, collegate non solo nei commerci e nelle altre attività umane ma anche e soprattutto nella comune appartenenza alla stessa civiltà che aveva il nome di Roma.
Dopo un paio di chilometri dal bivio arrivarono in località Sassacci, lì si fermarono presso una locanda a ridosso della strada. Era scesa la sera, erano stanchi, i piedi gonfi dentro gli scarponi militari, chiesero al locandiere se poteva ospitarli per consumare un pasto, si accontentavano di quello che aveva. Li fece entrare. Il locale era ampio, delimitato da mura di tufo, grossolanamente scialbate. Alcuni tavolisenza un preciso ordine, panche al posto delle sedie, un bancone in un angolo, accanto una porticina che presumibilmente dava su una cucina retrostante. Due finestre ai lati della porta d’ingresso da cui filtrava il buio della sera che urgeva dietro i vetri a catturare la fioca luce della penombra del locale. L’oste giudicò che era ormai opportuno accendere un lume per rischiarare la stanza, dette fuoco con un fiammifero allo stoppaccio che alzò sino a raggiungere la lampada a gas che pendeva dal soffitto. Una luce azzurognola si diffuse per la stanza e ne ebbe sollievo l’umanità raccolta e il mondo esternoche si riempì di speranza all’apparire della luce trasmessa attraverso le finestre. La luce illuminò sulla parete opposta all’ingresso una scala in legno che conduceva ad un piano superiore. L’oste indicò loro. una panca più lunga delle altre,all’estremità della quale sedeva un altro avventore che dava mostra anche lui di essere in cammino. Evidentemente l’oste non voleva utilizzare altri posti che mostravano di essere stati già rassettati pronti per l’indomani, vista l’ora che lasciava prevedere non altri avventori per quella sera. Si rifocillarono mangiando pane e formaggio e una zuppa di legumi, bevendo con parsimonia vino bianco. Il compagno di tavolo era un giovane uomo dalla carnagione scura,capelli ricci, naso prominente,di circa trent’anni. Mangiava e beveva silenzioso in quell’angolo del locale. Sorrise timidamente all’arrivo dei due. Oltre loro non c’era altra gente nella locanda-trattoria. Zeno per natura estroverso gli rivolse parola e questi mostrò come una gratitudine per quella attenzione alla sua solitudine.L’oste viaggiava tra la cucina e il bancone e da lì portava il cibo preparato per i nuovi clienti. Era uomo, l’oste, basso e tarchiato con il volto rubizzo e una grande pancia come di chi si abbandona per il mestiere all’abitudine del vino e di cibi generosi. La campagna circostante era evidentemente generosa dell’uno e dell’altro e quel negozio su una strada di grande frequentazione garantiva un lavoro cospicuo, un po’ calato in quei tempi perigliosi ma bastevole per viverci bene. Poi non aveva a subire le minacce dei malintenzionati,perchè il regime tra i varimeritiche lui gli riconosceva, c’era quello di aver portato disciplina e se occorreva repressione nei confronti dei delinquenti, e in effetti negli anni da quando aveva quel locale non gli era occorso di subire disavventure da parte di gente che veniva a rapinare o consumati i servizi se ne andava senza pagare. C’era cresciuto e ci si era invecchiato in quel posto il locandiere, entrato lì da ragazzo come garzone. Si era fatto benvolere dal padrone, lui nato in una famiglia numerosa nella campagna nei pressi di Borghetto e passo dopo passo aveva sostituito il padrone nel lavoro, sino a diventare lui proprietario quando questi dopo una breve vecchiaia era scomparso. Non era sposato, viveva lì,dormiva al piano di sopra , in una stanza accanto ad altre due che riservava per la sosta notturna dei clienti. Aveva qualche donna del posto che gli dava una mano in cucina e per le pulizie e anche per i suoi bisogni sessuali. Quest’ultimi si esaltavano quando accadeva qualche accidente al passaggio delle quindicine in transito per Roma o da Roma. Talvolta accadeva che si dovessero fermare lì e lui offriva ospitalità in cambio dei loro favori. Erano proprio una bella cosa, giovani e profumate rispetto alle villane con cui aveva a che fare normalmente. Si innamorava pure ogni tanto di qualcuna, e una volta una di quelle gli disse che avrebbe lasciato il mestiere per poi venire a vivere con lui nella locanda. Giuseppe così si chiamava le mandava regali del suo orto e della campagna vicina, nel casino di via della stelletta, e con quel ben di Dio ci mangiavano tutte, la sua amata e le compagne negli intervalli di lavoro. Poi Lisa cosi si chiamava, ebbe pena di lui, quel suo dire che avrebbe lasciato il mestiere e lo avrebbe raggiunto laggiù a Sassacci era una bugia, solo un ringraziamento per l’affetto che lui le dimostrava , ma ora le sue amiche , parlandone , lo prendevano in giro, lo trattavano da gonzo e non bastavano i regali che mandava regolarmente a rabbonirle ad essere più pietose. Lisa ebbe pena di lui e gli scrisse che non doveva più mandare niente che tanto lei non sarebbe mai andata da lui. Lo scrisse e mandò la lettera ma sentì come un dolore nel petto, come precludersi una possibilità. Ritirare la sua mano da quella aperta e in attesa di lui, che aveva provato un sentimento per lei. Un sentimento d’amore nato come un fiore nell’oscurità, lo aveva donato quel fiore un uomo rozzo, non bello ma già il gesto lo aveva riscattato dalla sua carnalità e una volta il sesso consumato in quella locanda era terminato con una carezza sul viso, inaspettata, mentre lei si stava rivestendo. Una carezza sul viso gli aveva raccontato il bisogno d’amore di quell’uomo. Volle non pensarci più e così fece.
Il giovane che sedeva in fondo al tavolo fu invitato ad avvicinarsi a loro. Non passò troppo tempo che l’atmosfera amichevole diventasse occasione di comunione e svelamento, così Davide, era il suo nome, prese a raccontarsi. Veniva da Rodi, era riuscito ad imbarcarsi sull’ultima nave italiana, che riportava in patria parte della comunità che viveva nell’isola. Si era diffusa la notizia dell’armistizio dell’otto settembre, si temeva l’ostilità dell’alleato tedesco tradito, cosi chi poté s’imbarcò. Era rimasta una guarnigione militare, in attesa di ordini che all’inizio vennero contradditori e poi più nulla, come per i più numerosi commilitoni della divisione Aqui a Cefalonia che dovevaaffrontare le medesime incognite. La sua famiglia ebrea aveva un commercio esclusivo di articoli per uffici e scuole e a seguito di questo privilegio o per sincera fede politica erano sostenitori del regime fascista. Una condizione comune a molti della comunità ebrea locale e nazionale che si sentiva legata alla patria per la quale aveva combattuto con sacrificio ed abnegazione nella grande guerra. Le leggi razziali del trentottoavevano solo scalfito la fede. Si diceva, pensavano, che il Duce le aveva dovute fare per accontentare l’alleato ma da noi non sarebbe successo niente per la gente comune, sarebbe bastato comportarsi bene e non sarebbe successo nulla. Non era stato così: le scuole proibite, i professori allontanati.. e tutto il resto.
Sopportarono, d’altra parte cosa potevano altro fare? Molti pensarono che in fondo stavano peggio gli ebrei in Germania e negli altri paesi d’Europa, anche quelli francesi che se potevano fuggivano dai tedeschi e dai francesi di Vichy e riparavano in Italia, l’Italia fascista di Mussolini dove trovavano un riparo più sicuro. Raccontava queste cose Davide e aggiunse che era diretto ad Ancona città di antica accoglienza per gli ebrei. Al tempo del Papato quando fu deciso di raccogliere gli ebrei dello stato pontificio nei ghetti di Roma ed Ancona, alcuni della sua famiglia si erano stabiliti lì e lì erano rimasti. Dopo tanti secoli i discendenti di quella famiglia erano ancora in Ancona e lui intendeva raggiungerli per avere riparo. Non era sposato, i suoi anziani genitori non avevanoaffrontato il viaggio, non se l’erano sentita e d’altra parte si pensava che data l‘età avanzata non avrebbero avuto a soffrire dai tedeschi se questi si fossero sostituiti agli italiani nell’isola e nelle altre del Dodecaneso e poi gli alleati avrebbero vinto la guerra in poco tempo quindi non c’era da temere molto.
Era sceso il buio sulla locanda, per quella giornata il cammino erafinito.Zeno e Silvio si erano alzati all’alba avevano percorso a piedi e con il camioncino e il treno un po’ meno di cinquanta chilometri, ora erano stanchi e contenti che tutto fosse andato bene, chiesero all’oste un posto per dormire e cosi Davide. Fu data loro una camera con tre lettini al piano di sopra. Andarono a dormire, si sarebbero alzati alle prime luci dell’alba.
Cantò il gallo quando era ancora buio, dopo,una pallida luce filtrò dalla finestra della camera. Era l’alba, Zeno era già sveglio, si accinse a svegliare gli altri. A turno raggiunsero il bagno in fondo al corridoio, c’era un lavandino e una specie di buiolo per i bisogni corporali. Uscirono di lì dopo essersi lavati il viso e rassettato i capelli. Controllarono che la barba non fosse troppo lunga da insospettire eventuali controlli sulla loro condizione e non avrebbero potuto fare diversamente perché non avevano nulla con loro di arnesi da barbiere. Vestiti, Zeno si affacciò dalla finestra. Silenzio intorno, cielo coperto, minaccia di pioggia, nessuno lungo la strada. Scesero da basso, l’oste preparò per loro del formaggio e del latte, a parte un orzo scuro appena filtrato con i fondi galleggianti nella tazza. Pagaronoil conto, ognuno di alcune decine di lire, uscirono in strada. Poche case intorno, basse,ad un piano, ognuna con un giardinetto davanti e un orto dietro. Presero a camminare, dopo cento metri trovarono una deviazione che indicava il raccordo con la Cassia, proseguironolungo la loro strada. La pioggia fine prese a scendere e progressivamente rese il selciato fangoso, gli scarponi si ricoprirono ben presto di un induito grigiastro dato dalla terra bagnata. Sicoprirono il capo con un cappellaccio che tirarono fuori dallo zaino. Di lato alla strada incontravano, ad intervalli irregolari, dei capanni,grandi come un’edicola che l’Anas aveva approntato come deposito di materiali. Si riparavano e sostavano lì per un pò,quandola pioggia si faceva più fitta. Giusto il tempo per accendere un fuoco in un angolo del locale adibito a braciere, per asciugare loro e gli abiti prima di riprendere il cammino. Invece a più lunghi e regolariintervalli,avevano incontrato il giorno precedente e anche quella mattina, subito dopo aver lasciato Sassacci, le case cantoniere con le mura dall’intonaco rosso.
Si cominciavano a vedere già a distanza le case cantoniere, e i colori riecheggiavano passate grandezze di rosso pompeiano e bianco travertino, forse anche per questo erano stati scelti quei colori. Sovente sul davanti pini alti con una larga chioma a cappello, di quelli che si vedono nei parchi di Roma, accanto un garage per un riparo dei mezzi meccanici. Dietro la casa, un forno, un orto e un pollaio per gli animali da cortile. Servivano alla vita del cantoniere che con la sua famiglia viveva lì, quella era la sua casa. Stavano lungo le strade d’Italia le case cantoniere. Sul muro era disegnato un rettangolo bianco dove si leggeva il nome della strada, il numero della statale cui quella corrispondeva, la distanza in chilometri da Roma. Su tutto troneggiava la scritta Anas, l’ente che sovraintendeva la gestione delle strade statali e che aveva eretto quella costruzione. La semplicità della forma e l’assolutezza del colore comunicavano un senso di forza, di sicurezza, di autorità severa, ma anche vigile e protettiva. Rimandava al viaggio di uomini affrancati dalla barbarie, che nella loro scoperta di sé e del mondo, trovavano sul cammino i segni di altri precedenti passaggi: pietre accatastate per delimitare uno spazio di sosta o di preghiera o per porre fine al viaggio con un ultimo respiro. Un testimone, qualunque significato esso avesse, che dava a quelli che sarebbero seguiti, forza per proseguire il cammino, e placare l’angoscia dell’inconosciuto. Lo avevano raccolto quel testimone generazioni dopo generazioni e lo avevano portato oltre. Le case cantoniere raccontavano tutto questo e anche altre infinite cose, quante albergano nella mente e nel cuore degli uomini. Prima delle attuali c’erano state le mansiones e le mutationes romane. Anche allora c’era un ente che governava le strade dell’Impero. Dalla Gran Bretagna al deserto libico, dal Portogallo all’Armenia e a tutte le terre poste dai romani sotto l’impero del diritto e della civiltà. Tutto era cominciato all’alba della nostra storia con le strade che partendo dal Foro raggiungevano le città della Sabina, poi dell’Italia, infine del mondo conosciuto. La Flaminia, l’Appia, la Cassia, l’Aurelia, l’Emilia, la Valeria, e tutte le altre, pavimentate le più,con pietre di basalto, levigate dai passi dei legionari e delle genti, con profondi solchi ai lati per l’infinito passaggio dei carri. Le case cantoniere raccontano anche questo, e accarezzano il desiderio di fermarsi per rinfrancarsi, prima di riprendere il viaggio della vita. Ora giacciono abbandonate e cadenti su strade non più percorse. La vita è esplosa altrove. Nei momenti di stanchezza del vivere ripercorriamole, ci racconteranno le favole delle veglie notturne nascoste in qualche parte della memoria.
Dopo circa un’ora di cammino arrivarono in prossimità della località Borghetto, la strada era in leggera discesa e abbandonato il bosco fitto di querce e carpini nel quale era immersa si apriva ad una grande pianura dove scorreva quasi maestoso il Tevere. ll paese di Borghetto stava solitario ai margini della pianura dove finiva il rilievo boscoso.
Quasi a giustificare una funzione di guardia della strada e di quanto accadeva in lontananza nella pianura,sull’ultima asprezza della collina, si ergeva una rocca in rovina , ma con la mura perimetrali in parte intatte e che secoli addietro doveva apparire maestosa e un po’ sinistra. Forse nella fantasia di viaggiatori acculturati avrebbe potuto rievocare la dimora dell’Innominato di manzoniana memoria. Il paese sottostante una decina di case in tutto, delimitava a destra la strada che ha sinistra aveva, in alto sulla rupe, la rocca.Itre stavano quasi arrivando alla prima casa, quando dietro la curva videro, non visti, una pattuglia di soldati tedeschi. Tornarono indietro e decisero di salire per un tratturo, nascosto tra le piante, sulla rocca e nascosti lì, controllare la situazione. Si appollaiarono dietro un muro che presentava delle fenditure,dalla più piccola di questein modo da guardare e non essere visti, osservarono cosa succedeva nel paese. Potevano essere truppe di passaggio, o un posto di blocco, o banalmente si erano fermati nello spaccio per fare provviste. Si trattava di una ventina di soldati armati scesi daun camion militare fermo al lato della strada con davanti una moto con sidecar che forse fungeva da staffetta. Alcuni dei soldati armeggiavano intorno il camion,forsea riparare un guasto. C’erano anche alcuni civili, probabilmente locali, che i tedeschi trattavano con modi bruschi e autoritari. Avevano aperto il cofano motore, da quello saliva del fumo bianco, i civili si alternavano a portare stracci ed acqua.
Dopo circa un’ora il guasto sembrò essere stato riparato e la colonna militare si mise in viaggio verso Roma. Avrebbe ripercorso la strada che loro avevano calpestato poco prima. Chi sa come sarebbe andato l’incontro se non avessero avuto il tempo di tagliare per la campagna? Davide soprattutto sentìcorrere un brivido lungo la schiena.Ma forse non sarebbe successo nulla. Quei soldati sembrava avessero fretta, magari, poveracci anche loro, correvano all’appuntamento con la morte. Probabilmente erano diretti al nuovo fronte che si era aperto per loro in Italia, contro gli anglo-americani e i loro alleati, tra cui le truppe marocchine che sarebbero diventate tristemente famose, tutti a risalire la penisola verso il nord. I tedeschi dovevano anche fare i conti con la popolazione, della sua reazione dinanzi all’invasione che stavano attuando. Si erano già verificate le prime sacche di resistenza ad opera di militari regolari, com’era accaduto nei giorni successivi all’armistizio. Il più drammatico e simbolico, la difesa di Roma consumatasi a Porta San Paolo ad opera dei Granatieri di Sardegna, con l’aiuto dei Lancieri di Montebello, dei carabinieri di Roma e uno squadrone del reggimento Genova cavalleria. Sbarrarono il passo ai tedeschi che si accingevano ad entrare nella capitale.Cosa li avrà spinti al gesto eroico, destinato all’insuccesso, isolati e abbandonati dagli alti comandi e dal re fuggiti a Brindisi per salvare la pelle o organizzare il nuovo stato dopo la caduta del fascismo come loro dichiaravano.? Quelle mura erano state violate una sola volta nella millenaria storia di Roma, ad opera di Brenno e dei suoi Galli Senoni, la volta successiva dopo ottocento anni erano stati i Visigoti di Alarico a penetrare nella città e porre fine all’impero romano di Romolo Augustolo. Poi ci sarebbero stati tutti gli altri da Totila a Carlo V, sino all’ultimo, il nonno del Savoia fuggito a Brindisi.Comeredivivi centurioni romani, i granatieri e i loro commilitoni si opposero all’ex alleato, senza più la forza di gettare oltre le linee l’insegna e sbaragliare gli attaccanti nel tentativo di riprenderla. Ma il gesto servì per salvare l’onore di un popolo sconfitto e sbandato. Zeno ebbe un moto di commozione pensando ai visi quasi imberbi di alcuni di quei soldati tedeschi. Erano stati i più arroganti con i civili costretti ad aiutarli:chi saperché? Forse l’educazione ferrea di quel regime dispotico li aveva resi fanatici, o la paura inconfessata di non essere in grado ad interpretare un ruolo che non sarebbe stato della loro età; di più,a confrontarsi con il pericolo e lamorte.Loro non avrebbero saputo dire, non potevano, e poi non avrebbero avuto modo: sarebbero caduti i più, sui campi di battaglia che avrebbero ancora calcato prima dell’armistizio finale. Non sapevano che la storia li avrebbe condannati all’ignominia, al marchio di torturatori, tutti, anche quei ragazzi imberbi, anche quelli, che due anni dopo si sarebbero opposti, adolescenti ancora più imberbi, alle armate russe che avanzavano nel centro di Berlino. Si sarebbero immolati nell’estremo sacrificio intorno al loro duce,asserragliato nel bunker della cancelleria. Di lì sarebbe uscito un’ultima volta per passarli in rassegna e gratificarli di una medaglia e di una carezza, per poi suicidarsi in modo da sfuggire alla cattura e uscire alla grande dal teatro della storia. Quell’epopea di lutto, distruzioni ed immani sofferenze avrebbe avuto il marchio del male assoluto, e in quella condanna non si sarebbe salvato nessuno, né i carnefici dei tanti olocausti, né i condottieri delle tante battaglie vinte, ma mai esauste. Ce n’era sempre un’altra da ingaggiare, senza fine, sino al delirio e alla catastrofe finale. “Got mituns” recitavano i soldati tedeschi sui campi di battaglia d’Europa, d’Asia e d’Africa, e così in altra lingua e per un Dio diverso i camerati giapponesi dell’estremo Oriente. Quella bestemmia cosmica avrebbe decretato la loro fine. Ma come sempre nella storia, l’assolutezza di quel delirio di conquista che aveva mutuato dal superomismo nicciano la sua linfa, ebbe termine nel Valhalla finale,punto d’arrivo di quella storia di morte e distruzione. Ma quel fuoco è destinato a propagare intorno un bagliore nefasto che non si dissolve, che suona condanna, ma diabolicamente esercita un fascino perverso che sta lì pronto a storicizzarsi di nuovo, non si sa quando o dove, ma potrà accadere che le conquiste e il benessere della ragione sarà offuscato dalla tormenta dell’indicibile, dell’irrazionale. Appariranno di nuovo angeli fiammeggianti in cielo ad invocare nuove vittime ed olocausti al dio della guerra.Non così gli italiani, estranea loro quella determinazione luciferina a rincorrere un’idea di onnipotenza e dominio sugli altri. Forse eredi di un passato glorioso, diluito e ammorbato dai secoli frapposti, non avevanopiù il vigore e la fame di chi si affaccia da breve tempo alla ribalta della storia.Forse appagati da tanta antica grandezza e frustrati dai tentativi infruttuosi di riproporla nei secoli a seguire. Ora il fascismo ci aveva di nuovo provato, ma usciti dal cortile di casa, le parole roboanti si erano scontrate con l’acciaio dei mezzi e degli uomini contrapposti, ed era stato disastro.
Zeno, Silvio e Davide, partiti i tedeschi, ripresero il viaggio. Circospetti scesero dalle mura del castello e raggiunsero il paese sottostante di Borghetto. Alcuni del posto avevano fatto un crocicchio nello spazio antistante lo spaccio di generi alimentari e merceria. Discutevano dei tedeschi di poco prima, c’era ancora paura mista a soddisfazione perché non era successo nulla di grave. Qualcuno azzardava dei commenti politici, visto che il pericolo era passato. Condanna per i nuovi invasori, ma non mancavano quelli che aderivano al partito del tradimento da parte nostra che in qualche modo legittimava l’invasione. Zeno pensò che con quelle premesse si annunciavano tempi ancora più bui data la tendenza degli italiani alle fazioni anche violente. Tempi bui oltre la guerra in corso e i tedeschi.!!!Nello spaccio trovarono un sapone e anche un pennello, Silvio aveva con sé un rasoio, dunque ora c’era l’occorrente per una rasatura al bisogno. Di roba alimentare poco, presero del pane, un pezzo di lonza e mezza forma di formaggio pecorino che il negoziante tirò fuori da un cassetto e fece pagare con i prezzi della borsa nera. C’era anche delvino sfuso con cui riempirono una borraccia. L’acqua non era mancata e non sarebbe mancata lungo il viaggio, perché lungo la Flaminia, oltre le case cantoniere, si trovavano ad intervalli quasi regolari, se le falde del terreno circostante consentivano, fontane di acqua sorgiva.Un piccolo monumento di grande utilità, realizzato del regime di cui si fregiava con regolamentare fascio littorio e anno inciso sulla pietra bianca a partire dalla rivoluzione fascista. Come le case cantoniere si riconoscevano a distanza peril colore rosso pompeiano, cosi queste per il bianco della pietra. Alte come una persona, facevano bella mostra di sé in uno spazio ricavato a lato della carreggiata. Servivano agli umani per bere e rinfrescarsi dalla calura estiva, per i mezzi a motore per ripristinare l’acqua nel radiatore, per le abluzioni e la toilette dei viandanti, per le necessitàdegli animali. Lo sgorgare dell’acqua era perenne, non c’erano ancora quei fastidiosi bottoni che avrebbero messo anni dopo per limitare lo spreco, dicevano. Accadde quando l’acqua cominciò a servire per l’aumentata popolazione, per le attività dell’uomo, per le fabbriche e l’agricoltura intensiva, per le megalopoli razziatrici di beni di consumo, per le multinazionali che si accaparrarono le sorgenti, da cui la creazione del business delle acque minerali. Allora ancora no, risorsa di una natura benigna che dispensava agli umani con abbondanza, quanto serviva per i bisogni essenziali della vita. Oggi, come le case cantoniere, le fontane sopravvivono ignorate, spesso prosciugate, altre ancora orgogliosamente funzionanti a dispetto dei tempi e della loro supposta inutilità. Ripresero il cammino, dopo qualche centinaio di metri la strada s’immetteva su un lungo ponte sospeso sul Tevere che in quel tratto disegnava grandi volute nell’ampia pianura circostante. Non case intorno, terreno propizio per le colture data la prossimità con ilfiume e l’esposizione senza ostacoli ai raggi del soledall’alba al tramonto. File di alberi delimitavano il corso del fiume lungo la vasta pianura delimitata ad est ed ovest da rilievi collinari boscosi. Oltre quei rilievi, a levante si scorgevano le alte cime degli Appennini. Un paesaggio assoluto, gli eventi geologici nei millenni lo avevano modellato a quel modo, sarebbero occorsi in futuro altri rivolgimenti della natura a stravolgerlo, ma quel giorno agli occhi dei tre uomini in cammino, quel mondo appariva concluso, immutabile nella sua soavità, come se i sovvertimenti passati fossero stati guidati ad un fine di bellezza ed armonia come in quel momento apparivaloro. Ancora sul ponte e subito dopo averlo attraversato si volsero ad ammirarne la fattura. Un manufatto antico di centinaia di anni con un’edicola nel punto di mezzo ricca di ornamenti in pietra sormontati dallo stemma pontificio con una scritta in latino che loro non erano in grado di tradurre. L’avevano costruito il ponte,in pietra bianca e cotto, a colmare gli spazi che si frapponevano tra e sopra i quattrograndi archie le altre strutture che la pietra creava. Due muretti laterali delimitavano la carreggiata costruita a schiena d’asino,sì che si andava in salita nel primo tratto per poi ridiscendere superata la sommità. Ampio il passaggio da permettere il transito di carri e vetture, forse anche nel doppio senso se non si temeva di raschiare la spalletta laterale. Lo ammirarono da addetti a quel mestiere, ma non sapevano che da lì a poco aerei della grande armata anglo-americana lo avrebbero bombardato, nel tentativo di ostacolare la ritirata dei tedeschi. Questi dopo la strenua resistenza a Cassino avrebbero cercato di raggiungere un punto più a nord della penisola italiana dove contendere al nemico l’avanzata verso la fortezza germanica. A nulla sarebbero servite le imponenti fortificazioni scavate sul monte Soratte, per ordine del generale Kesserling. La grande battaglia consumatasi a Cassino dove i germanici avrebbero sacrificato un’intera divisione di paracadutisti, li avrebbe spinti a ritirarsi dietro la linea gotica, per organizzare lì una nuova resistenza. Ma in quel giorno il bel ponte era ancora in piedi , era un ponte importante, uno dei pochi che permettevano l’attraversamento del fiume non solo in quel tratto ma anche a nord dove gli antichi ponti di epoca romana di Gallese ed Orte erano crollati e a sud dove si doveva arrivare a ponte Milvio per trovarne un altro. Fu papa Sisto V nel XVI secolo che prese la decisione di costruire un nuovo ponte nella località di Borghetto. La leggenda narrava che lui, giovane francescano in viaggio da Loreto a Roma arrivato lì, per attraversare il fiume, si rivolse ad un barcaiolo che svolgeva quella funzione. Questi, vedendolo non particolarmente florido nell’aspetto e temendo che non l’avrebbe pagato, pretese il breviario come cauzione. All’arrivo sull’altra sponda il frate disse al barcaiolo che quando sarebbe diventato Papa avrebbe costruito lì un ponte, così gli avrebbe tolto prima il lavoro, poi lo avrebbe fatto impiccare sotto i piloni del ponte una volta costruito. Ed ancora al tempo che stiamo raccontando sotto il ponte si vedevano dei ferri che si voleva segnassero il punto dove si era verificata l’esecuzione.
Lasciato il pontei tre percorsero il tratto di strada che correva diritta per alcuni chilometri, sino a raggiungere l’altro lato della pianura, raggiunto il quale la strada piegava a sinistra a ridosso dei rilievi collinari.Da che avevano lasciato Borghetto non avevano incontrato nessuno lungo la strada, sulla campagna si vedevano in lontananza contadini intenti ai lavori di ottobre sul terreno reduce dal riposo estivo. Aravano in alcuni tratti, iniziavano la semina in altri già preparati e pronti a ricevere il prezioso seme.Stormi di uccelli vaganti nell’aria picchiavano sul terreno per quel pasto a buon mercato prima che la terra avesse tempo di nasconderlo alla loro vista. Altri uomini erano intenti a raccogliere dalle piante le primizie della stagione. Ogni tanto il silenzio era rotto dagli uomini che si davano alla voce con quelli distanti, per dirsi cose, per un bisogno di comunione, tra loro e con la terra che lavoravano, con gli alberi che accudivano. I tre si trovarono a rallentare il passo per la fatica che si andava accumulando ed anche per la quiete del paesaggio. Si fermarono su una radura in riva al fiume che in quel tratto aveva frenato la suacorsa, sì che appariva a occhi non attenti, immobile. Si fermarono. Erano lontani dalla guerra che imperversava poco distante. Il cielo nuvoloso lasciava filtrare in qualche angolo raggi caldi di sole. Si tolsero le scarpe e immersero i piedi e le gambe nell’acqua del fiume. Un freddo discreto, refrigerante, benefico, su piedi abusati dal cammino. Lo sciabordio dell’acqua sulla pelle era piacevole, avrebbe spinto ad immergere tutto il corpo nel fiume sacro se fosse stata la stagione propizia. Dopo un tempo ripresero il cammino per dirigersi alla volta di Otricoli la romana Ocriculum.
Da basso in prossimità del Tevere sorgevano i resti della città romana, resti imponenti di edifici pubblici, l’anfiteatro, leterme, un tempio, case dirupate ma diffuse in una ampia area, a riconfermare l’opulenza della città posta sulla consolare e lungo il fiume sacro. Tito Livio racconta che dopo la battaglia di Mevania, l’attuale Bevagna dove furono sconfitti gli Umbri, solo gli abitanti di Ocriculum, non avendo partecipato allo scontro con i romani, da questi ebbero il titolo di amici dei romani.Grazie anche a questo oltre alla favorevole posizione, la cittàdivenne con il tempo centro commerciale importante con un porto sul Tevere e una statio sulla Flaminia per la raccolta e la vendita dell’olio prodotto sulle colline circostanti. Divenne presto anche un centro per la villeggiatura dei ricchi romani. Vi aveva una villa Tito Annio amico di Cicerone, e Pompea Celerina, la suocera di Plinio il giovane. Donna ricchissima dai grandi possedimenti terrieri. Dunque città dedita all’agricoltura, al turismo, ed anche industriale con la fabbrica di coppe a rilievo dette coppe di Popilio, accanto a fabbriche di tegole e mattoni. Nel suo territorio si svolse nel 412 d.C la grande battaglia tra l’usurpatore Eracliano l’africano, e Marino il generale dell’imperatore Onorio che uscì vincitore. Le cronache del tempo raccontano che sul terreno si contarono 50000 mortiOcriculumfu poi distrutta alla fine del 500 dai longobardi e la città fu abbandonata per essere ricostruita sul colle antistante dove è ancora oggi.
La strada che stavano percorrendo era in leggera salita, lasciava a destra i resti della città romana e a sinistra si intravedevano le case di Otricoli sulla collina. Per andarci bisognava prendere una deviazione che si distaccava dalla Flaminia e dopo un breve, tratto arrivava al paese. I nostri continuarono lungo la consolare. Questa saliva lungo un profilo collinare, sospesa a sinistra sulla pianura dove sempre più lontano scorreva il Tevere, e a destra sopra un vasto territorio delimitato in lontananza dai rilievi pre-appenninici. Non case o paesi in quell’angolo di mondo, solo qualche raro casolare, boschi e in alcuni tratti terreno coltivato. Percorsero alcune decine di chilometri con passo regolare ma lento data la strada in salita. Fitte boscaglie dialberi a foglia caduca che cominciavano amutare il loro colore dal verde verso i toni del marrone. Accanto, isolati o raccolti in gruppo, pini che in alcuni tratti delimitavano la strada, sempre lussureggianti nonostante il volgere delle stagioni. Qualcuno caduto rovinosamente a terra, quasi una punizione del loro essere cicale, in confronto alle querce che mostravano di non temere nulla, con i loro tronchi possenti, umili da accettare la spoliazione nella stagione fredda per poi rinascere più vigorosi all’arrivo della primavera. Forse per questa forza che esprimono,le querce e le loro foglie nelle decorazioni degli ufficiali di alto grado.
Arrivati in cima alla salita, la strada procedeva pianeggiante per alcuni chilometri sino ad arrivare ad un bivio. A destra riprendeva a salire in direzione di Narni, a sinistra scendeva per gettarsi in una vallata stretta,boscosa di sempreverdi soprattutto lecci. In fondo scorreva il fiume Nera che continuando la sua discesa si sarebbe gettato nel Tevere presso Orte. Da Otricoli la Flaminia era entrata in territorio umbro, e il terreno collinare e boscoso l’annunciava. Il distacco dagli spazi ampi delle pianure laziali era deciso, raccontava anche il carattere diverso della gente umbra che più ci si allontanava da Roma più diventava chiuso, a tratti scontroso. Chiusi nelle loro città di pietra, gli Umbri hanno visto fluire la storia lungo la consolare Flaminia che attraversa la regione da un capo all’altro. Se ne sono tenuti in disparte per quanto hanno potuto. Ma se molestati si sono fatti sentire, come fu per Annibale ad opera degli spoletini. Questi, reduce dal trionfo del Trasimeno, si fece sotto le mura di Spoleto, per proseguire alla volta di Roma, ma ne fu impedito dagli abitanti della città e costretto a cambiare itinerario. Quasi una vendetta degli spoletini per la strage da lui perpetrata sul console Flaminio ed i suoi legionari. Edancora oggi la porta della città che non riuscì a forzare prende il nome di Porta Fuga. O quando più recentemente i perugini si rifiutarono di pagare l’aumento della tassa sul sale che il Papa aveva deliberato. Ma l’atto di ribellione costò loro la distruzione dei quartieri occidentali della città dove sorgevano i palazzi dei Baglioni signori di Perugia, che finirono in quella occasione il loro dominio, e sulle rovine fu edificata la rocca paolina a vigilare e reprimere altre rivolte.
Superarono il bivio e presero per Narni, la strada diventò subito salita. Da quando avevano lasciato Sassacci all’alba, avevano percorso circa 20 chilometri.C’era stata la breve sosta nelle acque del Tevere,ma escluso quel tempo, avevano camminato ininterrottamente per quasi quattro ore. I tratti in salita ne avevano rallentato la marcia. Decisero di fermarsi, spostandosi sotto un grande leccio discosto una cinquantina di metri dalla strada, un poco nascosti alla vista di coloro che transitavano, mentre da parte loro avevano un a sufficiente visuale. Silvio tirò fuori dallo zaino quanto avevano acquistato a Borghetto e, fatto della sua giacca una tovaglia, apparecchiò per lo spuntino mattutino: pane, formaggio, e fette di lonza.Silvio sentiva su di sé la responsabilità di quel viaggio, nei confronti del nipote e ora anche di quel ragazzo che si era unito a loro. Non più giovane sentiva la fatica più degli altri ma non lo dava a vedere, anche se sulla salita il suo passo diventava più lento e gli altri erano costretti a rallentare. In più era gravato da pensieri che lo turbavano. Quella decisione di rientrare a Sigillo era sofferta, lo spingeva la preoccupazione della famiglia: la consorte e le due figlie.Queste avevano lasciato Roma da alcuni mesi e non sapeva come si fossero sistemate nel paese. C’erano il fratello Umberto e il padre Attilio che certamente avevano provveduto alle loro necessità, ma mancava la sua presenza. Poi c’era il grande cantiere nella campagna romana dove aveva portato anche il nipote Zeno. L’attività si era interrotta da tempo, da quando il progetto dell’Expo 42 o E42, come veniva chiamato, causa la guerra, si era interrotto. Lui, capo cantiere, aveva avuto la responsabilità di controllare la vasta area dei lavori, pronto a riprendere l’attività se le cose fossero andate in un certo verso. Le grandi statue, in attesa di essere collocate trale colonne e le nicchie del Colosseo Quadrato e degli altri edifici completati, giacevano abbandonate per terra e continuavano i saccheggi di materiali. Per quanto aveva potuto, aveva svolto l’incarico di vigilare affidatogli dall’ingegnere Costanzi. Il titolare della grande impresa che aveva avuto l’appalto di quell’enorme lavoro. Si trattava di costruire una nuova Roma nella campagna acquitrinosa,in direzione del mare, aperta verso il Mediterraneo e oltreverso il mondo.Desiderio di un diverso ruolo per la nazione italiana, nostalgia di un passato imperiale e speranza di un futuro radioso. Non era stato cosi e l’interruzione dei lavori ne fu il simbolo. Ora anche Costanzi e le maestranze si erano dileguati e Silvio, a malincuore se ne tornava al paese, senza abbandonare l’idea di un ritorno, per riprendere in qualche modo il lavoro più entusiasmante della sua vita. Ricordava le albe dorate in sella alla bicicletta dal Quadraro, la nuova borgata romana dove aveva casa, sino alle mura aureliane. Lì aspettava Zeno che arrivava anche lui in bicicletta da via dei Pastini a lato del Pantheon,e insieme salivano su un camion dell’impresa accanto ad altri muratori prelevati prima. Percorrevano l’autostrada in costruzione che collegava Roma con il cantiere. All’autostrada era già stato dato il nome di Via Trionfale. Ma ora era tutto finito, però forse non tutto era perduto, pervicacemente qualcosa glielo suggeriva. Sarà stato il fascino che Piacentini e gli altri architetti del progetto esercitavano su di lui, e che gli facevano pensare che in qualche modo avrebbero completato l’opera maestosa. D’altra parte tutti questi erano vicini al regime e per lui socialista la cosa creava qualche conflitto interiore. La stima e il rispetto che aveva per loro lo aveva portato ad una minore acredine nei confronti di tutto quello che era opera del governo. In particolare per le opere costruttive che realizzava. Lui non se ne rendeva conto, non l’avrebbe mai ammesso, ma chi gli stava vicino lo notava.
Guardò con affetto i compagni di viaggio, per primo Zeno che amava come un figlio, così silenzioso e delicato. Gli aveva insegnato il mestiere, per quanto aveva potuto aveva limitato al massimo il periodo di fatica brutale della manovalanza: a caricare sacchi sulle spalle e caldarelle colme di cemento, o a picconare, e spalare. Ora lo aveva fatto assistente ai lavori accanto a sé, capo cantiere. E un sentimento provava anche per quel ragazzo poco più che imberbe, che si era unito a loro. Lontano dalla famiglia e dal suo mondo, diretto ad Ancona verso un futuro oscuro. Ebbe un momento di commozione e la tenerezza si tramutò in rabbia. Le cose per loro e non solo non erano così male, se pensava a tutti quelli che in anni precedenti se n’erano dovuti andare in America a cercare fortuna. C’era il regime si, per lui socialista non andava bene, ma erano stati fatti progressi in molti campi, sopratutto si stavano rimarginando le ferite dell’immane disastro della grande guerra. E poi le cose sarebbero cambiate anche in politica. C’era un movimento operaio internazionale che guardava alla Russia con grandi speranze, qualcosa sarebbe successo. Successe malauguratamente qualcosa, ma non quello che si sarebbe sperato! Scoppiò la guerra! All’improvviso il disastro, quell’altro nipote morto in Grecia, Zeno richiamato in Albania, il lavoro compromesso, il futuro incerto.
Si scosse e invitò gli altri ad alzarsi e riprendere il cammino. Davide si mise davanti a fare l’andatura sulla salita che a tratti diventava impegnativa. Camminava e pensava e alcuni dei suoi pensieri li comunicava ai compagni di viaggio. Gli accadeva raramente di essere così estroverso. Per di più, il viaggio da Rodi sino ad arrivare in quel posto ai confini tra il Lazio e l’Umbria era stato all’insegna del silenzio timoroso. Aveva evitato persone e luoghi affollati, a parte la traversata con la nave che lo aveva portato sino a Civitavecchia. Poi a piedi o con qualche mezzo di fortuna era arrivato sino a Sassacci. Lì la bonomia dei due aveva da subito sciolto la sua naturale diffidenza ed ora si trovava a raccontare loro di sé. Il timore che aveva provato nel partire, lui che non si era mai mosso da Rodi, il dolore di lasciare i suoi, si era placato un po’ dalla sera precedente, con l’incontro con Zeno e Silvio nell’ostello di Sassacci. Raccontava la sua vita a Rodi, il rapporto con la madre un po’ ossessiva, che vigilava sulle sue avventure amorose. Se le trovava inadatte per condizione sociale e per il futuro che immaginava per il figlio, riusciva sempre ad intervenire, in maniera occulta ma con successo. Lui non si angustiava troppo, perché quelle storie erano transeunti e l’intervento materno non faceva altro che aiutarlo a liberarsene e dunque renderlo disponibile per una nuova avventura. Gli piacevano le ragazze locali, brune, non alte, formose, e allegre soprattutto. Le vedeva e ammirava in giro per le strade della città o al mare dove scoprivano i loro corpi sinuosi e invitanti. Lui non bello, e timido riusciva a farsi valere dopo il primo contatto difficile. Era un narratore e le storie che raccontava tratte dai film visti o dai libri letti o semplicemente da sue fantasie, affascinavano le ragazze. La fascinazione che accendeva gli animi di chi ascoltava, quando funzionava, era per lui già una conquista, non finalizzata necessariamente a qualcosa di più. Bastava, per rafforzare la sua autostima, l’essere riuscito nonostante la timidezza e il non essere un gran fico. Poi il di più, quando accadeva, lo portava a perdere serenità. Diventava schiavo del desiderio, ed era sensazione sgradevole da cui liberarsi. Zeno e Silvio lo ascoltavano sorridendo, e guardandosi comunicavano l’un l’altro il pensiero che Davide era un giovanotto fortunato. Loro non avevano avuto tutto quel tempo per gli svaghi e le cose dell’amore. Queste si erano risolte in una cosa che si chiamava famiglia.
Dopo alcuni chilometri di salita arrivarono in località Testaccio, un gruppo di case che segnavano il termine della salita e l’inizio di una discesa che oltrepassata Narni sarebbe terminata nella pianura di Terni. La strada in quel tratto era circondata da boschi di lecci e mano a mano che scendeva si incuneava in una gola tra due alti rilievi che percorreva addossata alla montagna, quasi sospesa sul ciglio della roccia sotto il quale sprofondava il burrone. In fondo correva il fiume Nera e la gola era la parte terminale della Val Nerina, disegnata dal fiume omonimo che nasceva in alto e in lontananza sugli Appennini e scavava la roccia sino a questa gola finale, prima di gettarsi nel Tevere poco oltre, all’altezza di Orte. Percorsa la discesa per 7-8 chilometri, cominciarono ad intravedere Narni, che da un lato si affacciava con le case a precipizio, sulla gola del Nera, e davanti sulla vasta pianura dove si intravedeva in lontananza Terni. Traversarono la porta che dava accesso alla città. Attorno alla Flaminia, diventata corso cittadino si ammassavano due file ininterrotte di edifici in pietra, con quelli di sinistra che si affacciavano sul burrone sottostante. Fu Davide che, fresco di studi, raccontò loro che si trattava di città nobile e antica, esistente sin prima della conquista romana, quando gli fu cambiato il nome in Narnia, termine che evocava il fiume Nera sottostante. La città era diventata florida quando fu costruita la via consolare e si ricordavano personaggi illustri, cui Narni aveva dato i natali, tra tutti l’imperatore Nerva, ultimo imperatore italiano e nel medioevo il condottiero e capitano di ventura conosciuto con il nome di Gattamelata. La città attuale era d’impianto medioevale ed aveva subito il dominio dei longobardi di Spoleto. Infine additò loro l’imponente rocca dell’Albornoz che dominava sull’abitato. Questi nel XIV secolo aveva costruito nei centri maggiori attraversati dalla Flaminia, rocche di difesa e controllo sul territorio. Quella di Narni venendo da Roma era la prima che si incontrava. Grande personaggio l’Albornoz. Era stato militare al servizio del re di Spagna nelle guerre contro gli arabi. Poi si era conquistato benemerenze anche presso la Chiesa, tanto da meritare la porpora cardinalizia al tempo dei Papi Avignonesi. In quegli anni il potere temporale pontificio sulle terre appartenenti alla Chiesa si era andato perdendo per effetto dell’usurpazione da parte di signorotti locali, nel Lazio, in Umbria, nelle Marche e in Romagna. L’Albornoz ebbe l’incarico dal Papa di tornare in Italia e riconquistare le terre sottratte. Lo fece nel corso di lunghi anni. Fu una lotta dura e difficile che vide anche la sua lungimiranza politica nel dare riconoscimenti formali agli sconfitti per consolidare le conquiste fatte, nonostante la perplessità dei pontefici. La sua operazione militare si concluse con l’edificazione di una serie di rocche lungo i territori conquistati e posti di nuovo sotto l’autorità della Chiesa, che a buon diritto ancora oggi vengono denominate rocche albornoziane. Silvio e Zeno lo ascoltavano con piacere perché Davide raccontava con passione, dava vita alle cose che raccontava, come se partecipasse agli eventi descritti. Era un modo di essere della sua natura che tendeva a ripiegarsi sul passato. L’interesse per i fatti della storia era come una ricerca di conforto, di protezione, un riconquistare un’identità sempre in bilico nel fluire del vivere, un’ancora, certezze cui appoggiarsi. Quei fatti erano immobili, consegnati all’accaduto, immutabili. La sua anima aveva bisogno di avvolgerli, plasmarsi su di quelli, quasi per prendere forza e con quella gettarsi nella mischia del presente, della vita che scorre ogni giorno tumultuosa.
Procedettero con passo tranquillo lungo la via. C’era gente in giro, in quell’ora di tarda mattina quando le persone cominciano a rientrare nelle case per il desinare. Camminavano un po’ discosti l’uno dall’altro, come mossi dal desiderio di mimetizzarsi meglio, di dare meno nell’occhio. In prossimità della piazza che era semplicemente uno slargo della via, gli edifici diventavano più alti rispetto ai circostanti. Pietra scura, che dava un senso di tetro, di oscuro, di Medioevo duro, con le viuzze strette che si dipartivano dalla piazza e salivano e scendevano come rivoli nel ventre dell’abitato. In un lato della piazza una grande fontana, e in cima ad una gradinata si ergeva la chiesa. S. Giovenale c’era scritto su un’insegna, doveva trattarsi del patrono di Narni. La gente in giro aveva cominciato a diradare, la strada lasciata la piazza girava sulla destra e poco oltre si intravedeva la porta di uscita della città.
Quando la via svoltò del tutto, in prossimità della porta, videro quattro uomini armati. Gli sembrarono fascisti, dalla divisa e dal copricapo. Ricordarono di aver sentito alcuni giorni prima, che si stava ricostituendo la Guardia Nazionale nell’ambito della Repubblica di Salò, sorta dopo la liberazione di Mussolini dalla prigione del Gran Sasso. E l’Umbria, con gli anglo-americani ancora lontani, faceva parte della Repubblica. Li videro i militi cento metri più avanti a guardia della porta, e quelli videro loro. Non c’era altro da fare che procedere tranquilli senza far trasparire il loro timore. Dove altro potevano andare? Si vedeva che erano forestieri in viaggio. Fuggire? Ma dove? E poi sarebbe stata un’ammissione di colpe da nascondere. Non rimaneva che andar all’incontro e in quei cento metri prepararsi a cosa dire. Silvio avrebbe parlato per tutti, avvertì gli altri con uno sguardo. Pensò che per loro due, ci stava il dichiararsi lavoratori del grande cantiere dell’EXPO 42. Un ritorno a casa temporaneo, in attesa di una nuova chiamata, appena il cantiere avesse ripreso i lavori. Lui aveva un’età non compatibile con il servizio militare. Più problematica la cosa per Zeno che aveva 31 anni, ma con sé aveva la licenza di quando era stato richiamato in patria dall’Albania per la morte del fratello al fonte. Quelli non potevano sapere che poi era stato di nuovo arruolato e si trovava sino a pochi giorni prima in una caserma a Civitavecchia. La preoccupazione era per Daniele, giovane, in età di essere arruolato. Che ci faceva lì da Rodi come attestavano i documenti che portava con sé? Quanto meno c’era da temere che sarebbe stato preso per essere arruolato visto che la chiamata alle armi erano disertate. Tutto dipendeva dall’atteggiamento di quei militi, dal loro essere fanatici o trattabili. Mano a mano che si avvicinavano Silvio notò che si trattava di ragazzi dall’aspetto non particolarmente aggressivo. Arrivati, quelli intimarono l’alt. Silvio si fece avanti e raccontò di loro due quello che aveva pensato di dire percorrendo quei cento metri. Di Davide disse che si trattava di un loro nipote che i genitori avevano mandato per far visita ai parenti nel paese d’origine. Parlò tranquillo, con calma, abbozzando un sorriso che sapeva di paterno nei confronti di quei ragazzi vestiti da soldati, e il sorriso non era una finta. Quasi il timore per sé e gli altri configgeva con la pena che gli facevano quelli, intrappolati in un’uniforme che prometteva sciagure, per loro e gli altri. Mentre si accingeva a mostrare i documenti che avrebbero convalidato il racconto che aveva fatto, gli balenò improvviso in mente il ricordo delle armi che Zeno portava con sé nella tasca del pastrano. Lo portava sulle spalle con atteggiamento disinvolto, forse sarebbe stata la prima cosa che avrebbero perquisito se avessero deciso di non fidarsi. Fu atterrito dal pensiero, ora decise che si trattava di sviarli da quell’ulteriore verifica dopo i documenti e le parole. Così prese a cianciare del tempo, della campagna, dei meravigliosi monumenti che avevano costruito a Roma, della bella città di Narni che stavano attraversando. E per trasformali da uditori in colloquianti, il che avrebbe catturato più la loro attenzione alle parole dette e sviato la mente da altri pensieri per loro pericolosi, chiese se erano di Narni o erano venuti lì da fuori. Questi risposero, dissero che venivano da Terni. Lì dopo lo shock di Settembre era stata riaperta la Casa del Fascio e molti ragazzi della loro età erano stati arruolati chi nell’esercito che si stava ricostituendo al Nord, chi nella Milizia a livello locale, a loro era toccata questa. A parte uno che appariva più determinato, gli altri sembravano essere non molto entusiasti di quell’arruolamento, come se non avessero potuto sottrarvisi. La cosa non si metteva malissimo, fu il pensiero che prese corpo nella mente dei nostri. Quei ragazzi sembravano ben disposti, c’era una ragionevole speranza che non avrebbe effettuato controlli severi, probabilmente si sarebbero accontentati dei documenti. Nel mentre che in testa giravano quei pensieri, che fluivano parole da una parte e dall’altra, e nell’attesa di un via libera, o peggio di altro che pervicacemente avevano eliminato dalla mente, si avvertì il rombo di aerei che si stavano avvicinando. Un rombo spaventoso e in un attimo li videro passare sopra di loro, bassi quasi da vedere la carlinga e le eliche girare. Venivano da sud erano decine e decine, forse centinaia. Ci fu un fuggi-fuggi di tutti, della poca gente in giro, dei militi, di loro per i quali il fuggire diventò liberarsi dal controllo, e guadagnare il passaggio della porta. Corsero fuori della città fino a fermarsi accanto ad un imponente momento ai caduti della grande guerra, che sembrava offrire un rifugio dagli aerei e dagli uomini. Attesero la fine del passaggio degli aerei che grazie a Dio non avevano Narni come destinazione. La meta era Terni con le sue acciaierie e le altre industrie. Se ne accorsero perché udirono prima, e poi videro dall’alto dove si trovavano, le bombe cadere sulla città. Erano rumori e bagliori delle esplosioni e poi fiamme quando ad essere colpiti erano i depositi di benzina e di altro materiale infiammabile. Nel mentre che il bombardamento su Terni andava avanti e la gente di Narni cominciava ad uscire dalle case, ormai tranquilla di averla scampata e con la segreta voglia di assistere allo spettacolo, i nostri decisero di lasciare il rifugio e proseguire il viaggio. Presero giù per la strada che con ampie curve abbandonava il colle su cui si ergeva la città, sino ad arrivare ad un bivio. A destra si impegnava in un lungo rettilineo che dopo una decina di chilometri arrivava a Terni, a sinistra voltava per raggiungere Narni scalo, un gruppo di case sorte intorno alla ferrovia dove era posta la stazione della città. Per arrivarci si trattava di attraversare un lungo ponte sospeso sopra il Nera, che mostrava segni di un recente bombardamento ma appariva ancora solido e percorribile. Accanto si ergeva il ponte romano detto di Augusto crollato nella parte centrale, con le enormi volute laterali ancora intatte. Non erano state le bombe a farlo crollare, ma il tempo , con i terremoti e le altre avversità della natura , poi gli uomini avevano fatto il resto con l’incuria e la depredazione del materiale. Ne soffrì Goethe in viaggio per l’Italia a vedere, disegnare, raccontare la romanità alla fine del settecento. Ne soffrì perché era tra i più maestosi che aveva incontrato, ma lo fece ritrarre ugualmente dal pittore che lo accompagnava nel viaggio. Quel ponte franato stava lì anche per rinfocolare le polemiche tra i cultori di cose romane, in particolare sulla consolare Flaminia. Il ponte di Augusto era la chiave di volta per decidere sulla querel riguardo la primogenicita’ tra i due tracciati. Quello che tira dritto verso Terni e l’altro che attraversandolo quando era in piedi, andava verso ovest. La maestà del ponte ci stava per quello diretto ad ovest, ma l’importanza delle città che attraversava, Spoleto in primis, ci stava con l’altro. E comunque entrambi i tracciati si ricongiungevano all’altezza di Foligno. Dunque una questione di lana caprina? Forse, ma di queste cose vive la ricerca storica e non solo quella. Alla fine i soliti accademici tedeschi avevano concluso che la strada primitiva era quella che attraversava il ponte di Augusto e non a caso l’imperatore lo aveva fatto restaurare con la tassa che impose all’aristocrazia romana in favore dei ponti della Flaminia. Da lì la strada si inoltra nella campagna umbra attraversando località che ancora oggi ne conservano memoria come Carsulae a poca distanza da Narni e dopo circa quaranta chilometri Bevagna, la splendida città romana circondata da mura ancora oggi intatte. Poi dopo altri dieci chilometri arrivava a Foligno dove si ricongiungeva con l’altro tracciato. Quest’ultimo finì per prendere la supremazia nei secoli, perché sul suo percorso attraversava Terni, e attraversato il rilievo della Somma arrivava a Spoleto importante città romana e poi longobarda.
Attraversarono il ponte nuovo e dopo circa un chilometro arrivarono in prossimità della stazione di Narni scalo. La piccola stazione era pressoché deserta, i tre si sedettero su una panchina sotto la pensilina. Si era fatta quasi sera, il sole se n’era andato dietro i monti che nascondevano Amelia, rimaneva una luce ottobrina che muoveva il cuore alla dolcezza. Annunciava tenebre che sarebbero scese su una natura gravida di vita matura, destinata presto a corrompersi, come nei frutti degli alberi da cogliere, o altrimenti, caduti a terra, ormai marcescenti. Di lì a poco anche le foglie, ancora verdi ma screziate di marrone e giallo, sarebbero cadute, annunciando l’incedere dell’inverno. La misteriosa macchina nascosta nelle viscere della pianta che trasformava anidride carbonica in ossigeno rallentava la sua corsa, e con essa si placava il flusso di linfa lungo le arterie, cibo e acqua dalla terra sino alle foglie. L’albero si sarebbe addormentato, ritratto in sé stesso, con rami scheletriti, a difendersi, a resistere all’acqua, al vento, ai fulmini, alle ferite inferte dagli uomini. Avrebbe sopportato tutto nell’attesa del nuovo sole. Ma ogni anno per lui la vita diventava più difficile, anche a causa dell’uomo. Millenni prima lo aveva visto arrivare con curiosità. Benevolmente gli aveva offerto protezione sui rami, tra le fronde, a riparo dalle bestie feroci che lo attentavano. Aveva tollerato il sacrificio di qualche compagno, legna per i fuochi, e per gli utensili. Ma poi gli uomini erano diventati sempre più numerosi e arroganti. E gli alberi e gli animali avevano dovuto subire la loro tirannia. Ovunque avevano subito saccheggi e distruzioni, sacrificata la libertà nelle foreste a servaggi nella terra degli uomini. Costretti a lavori massacranti in spazi angusti per produrre alimenti per le mense dei dominatori, o raccolti nei viali e nelle piazze per lo svago dei cittadini, infine condannati a morte per le necessità dei tiranni. Alcuni di loro si erano lasciti morire per non accettare quella schiavitù, con gli umani che non capivano quale morbo li avesse colpiti. Non era morbo era troppo asfalto intorno che si stringeva intorno a loro, e il nauseante odore di uomini e macchine che passavano sotto le sue fronde. Non era vita quella, lontani dai boschi dove erano sempre stati. E tra loro alcuni prima di morire si producevano in un’ultima rigogliosa gettata di boccioli e foglie: quasi un ultimo atto vitale, un grido al mondo, prima di precipitare nel nulla.
Ce n’erano due di alberi ai lati della stazione, due grandi platani che con il loro rami e foglie davano ombra durante il giorno alla pensilina, più di lato due grandi pini dalla chioma sempre verde, che mandavano un odore di resina intorno, per loro il ciclo delle stagioni sembrava non esistere.
Si erano alzati presto il mattino in quella locanda a Sassacci, avevano percorso il tragitto solo a piedi, ad occhio saranno stati tra i 30-40 chilometri, con varie pause e pericoli. Era andata bene, ora si trattava di trovare da dormire per riposare, dopo aver mangiato qualcosa. Di lato alla stazione passava la strada diretta ad Acquasparta, si trattava del primitivo tragitto della Flaminia, loro non l’avrebbero percorsa l’indomani. Erano venuti lì per la presenza della stazione, per vedere se avessero potuto prendere qualche treno in sicurezza. Sarebbe stata preoccupazione della mattina. Se non il treno, avrebbero di nuovo guadagnato il bivio prima del ponte e si sarebbero diretti verso Terni. Pensavano di trovare più possibilità, anche se più pericolo. Ma l’altra strada era un buco nero, non la percorreva più nessuno, dunque meno pericolosa, ma di contro con meno risorse, come il cibo che avevano quasi esaurito, e anche mezzi di fortuna con cui procedere più agevolmente. La scelta era fatta, quella stazione per la notte e dopo, se non il treno, verso Terni di nuovo a piedi o con qualche mezzo. Si erano sistemati sulle due panchine, dopo aver consumato il pasto residuo del giorno. Chi steso, chi semi-seduto, occupando in qualche modo lo spazio a disposizione, coperti con i loro pastrani. Con il buio erano scesi su di loro freddo ed umidità. Se ne avvide Silvio più degli altri. Le sue vecchie ossa e articolazioni provate da anni di lavoro tra calce e cemento ne avevano risentito e ora in età matura reclamavano riposi più accorti, che quella nuda panchina non garantiva, ma così era, per quella notte e forse altre ancora. Passò ancora qualche treno nelle ore sempre più buie che seguirono, nessuno di questi fece sosta nella stazione, forse erano treni militari. Loro nel dormiveglia non si mossero al loro passaggio, scommisero che non si sarebbero fermati ed ebbero ragione. La stazione rimase deserta e buia all’infuori di un cabinotto che sporgeva dal resto dell’edificio in direzione delle rotaie, forse per averne una visione migliore. Lì era sistemato l’addetto al controllo, la luce rimase sempre accesa, ma nessuno ne uscì. Il cielo a tratti mandava giù una pioggerellina ottobrina che condensava l’umidità dell’aria ed era piacevole a sentirsi per chi come loro non era caduto in un sonno profondo e continuava in quel dormiveglia a percepire quello che i sensi trasmettevano. Quello stato di sonno e veglia parziali mescolava percezioni sensoriali a pensieri ed immagini che si accavallavano nella mente. Ricordi, paure, ragionamenti appena abbozzati senza una conclusione. Era la coscienza obnubilata dal sonno ma ancor desta che si muoveva in libertà senza la gabbia della ragione, della logica che la rappresentava, e così i sogni si mescolavano con le immagini della giornata trascorsa, le aspettative del domani, i volti delle persone care. Si facevano sentire anche gli ormoni maschili che si esprimevano con diversa intensità, in relazione all’età dei tre. Inibiti durante il giorno aspettavano l’appuntamento con la notte per pungolare la carne e prepararla in un’atmosfera mielosa alle esigenze della conservazione della specie. Proponevano le sembianze delle donne amate, ma più subdolamente e spesso con più efficacia quelle delle ragazze dei casini che con diversa frequenza tutti avevano frequentato. Sublime mistificazione della natura che finalizza l’azione in maniera caotica, sì che il fine scompare per la predominanza del mezzo. E questo finisce per oscurare del tutto l’obbiettivo. Come è nelle civiltà in agonia che si abbandonano ai piaceri degenerati del vivere, dimenticando le virtù che li avevano fatti grandi. Il collasso finale libera energie nuove che costruiscono una nuova grandezza, i posteri diranno poi se del bene o del male. Così trascorse la notte nel riposo agitato da pensieri e immagini che l’oblio sconfitto non riusciva a mascherare.
Il cielo prese lentamente ad illuminarsi, la stazione sembrò svegliarsi anche se ancora deserta, loro si alzarono dalle panchine e si accinsero ad affrontare la nuova giornata sotto un cielo diventato sereno.
Prima che arrivasse gente si diressero alla fontanella situata di lato alla fine dell’edificio sotto uno dei pini che adornavano il luogo, e vicino al casotto dov’era la turca. Fecero i loro bisogni si rassettarono i capelli, ci fu anche tempo per sbarbarsi. Uscirono dalla stazione pe mettere uno iato tra loro della notte e quelli del mattino, come gente nuova che, uscita di casa, si recava alla stazione a prendere un treno, o ad aspettare qualcuno che doveva arrivare. Entrarono e si informarono dalla gente e dal personale ferroviario sull’orario dei treni diretti ad Ancona. Seppero che avrebbe fatto sosta a Narni scalo il treno delle nove proveniente da Roma. A momenti sarebbe transitato un treno militare proveniente da Nord che traportava soldati e armi dalla Germania verso il fronte a Sud nei pressi di Salerno dove erano sbarcati gli alleati alcune settimane prima. In un angolo della sala d’ingresso della stazione c’era un punto di ristoro. Si serviva al costo di pochi centesimi una bevanda calda fatta di un surrogato d’orzo, e fette di un ciambellotto fatto in casa. Servi l’uno per riscaldare lo stomaco e l’altro per dare un minimo di energia mattutina, in attesa di trovare qualcosa di più sostanzioso prima di riprendere il viaggio. Non ci fu tempo per parlare ancora o ragionare sul da farsi perché il treno militare si fermò con sorpresa di tutti. Ne era stato annunciato solo il passaggio e ora i militari presero a scendere. I tre non riuscirono a guadagnare l’uscita perché quelli erano già lì confusi con loro, e l’andarsene in fretta poteva essere cosa non buona. Erano militari tedeschi insieme a loro anche italiani. Silvio pensò che per quest’ultimi si trattava di coloro che avevano risposto alla leva fatta alcune settimane prima dal maresciallo Graziani che era diventato il ministro della guerra della repubblica di Salò. Loro rimasero lì, confusi in mezzo al clamore delle voci di tutti quegli uomini che dai gesti e dalle parole lasciavano intendere che la causa della sosta era dovuta al danneggiamento dei binari poco oltre, in direzione di Roma a seguito di un bombardamento aereo. Improvvisamente tra i volti dei tanti, Zeno riconobbe un viso conosciuto, uno del paese, ora lì in divisa. Lo chiamò: “ Emilioooo”. Questi, udita la voce, cercò con lo sguardo, ed individuato il viso amico, si diresse verso di lui, agitando la mano in segno di gioia e arrivato si abbracciarono. Parlarono e si chiesero l’un l’altro cose del paese, delle famiglie, di loro stessi. La famiglia di Emilio era la più in vista del paese in quanto a fede fascista. Un’adesione entusiasta e assoluta sin dalla prima ora del regime. Ne ebbero qualche piccolo tornaconto di potere ma non più di tanto, data la povertà del paese e la semplicità della vita. Avevano un commercio di alimentari sulla piazza, e quel commercio dava sostentamento ad una numerosa famiglia costituita da due fratelli con la loro discendenza diretta. Uno dei due aveva un soprannome in paese: Stagnino. Questi aveva una fama un po’ sinistra perché dicevano che era una sorta di mago o stregone al quale ci si rivolgeva per leggere il futuro o comunicare con parenti oltre-oceano. Raccontavano di poteri incredibili come di quella volta che operò una trasmigrazione entrando in un gatto nero che in una città della Pennsylvania vide la persona per la quale era stata richiesta la sua opera. E Stagnino potette comunicare alla donna richiedente che l’uomo era vivo, stava bene, lo aveva trovato in un bar con amici e che presto sarebbe tornato in Italia in famiglia. Favoleggiavano di un libro che lui teneva sempre con sé e che veniva raccontato con il nome di “libro del comando”, dove lui attingeva i segreti del suo potere che gli consentivano di dare risposte a coloro che richiedevano il suo intervento magico. Questa cosa, probabilmente più dell’appartenenza al partito fascista, conferiva a lui e alla famiglia un potere legato al timore che i possessori di poteri occulti esercitano sulla gente semplice. Emilio ragguagliò Zeno sui parenti di cui alcuni comuni e raccontò che una settimana prima era scattata la leva militare e lui era tra i coscritti. Altri coetanei si erano dati alla macchia, lui non se l’era sentita per la fede politica e per non dare un dispiacere al padre e allo zio che non avrebbero accettato quella scelta considerata una diserzione. Non disse altro, ma Zeno ebbe l’impressione che se fosse dipeso soltanto da Emilio, la scelta di arruolarsi non sarebbe stata così tetragona. Lasciato Sigillo aveva raggiunto il distretto militare a Perugia. Lì, insieme ad altri, lo avevano aggregato ad una divisione tedesca, in attesa di destinarlo alla Monte Rosa una divisione che il Duce stava costituendo in terra di Germania con coloro che avevano scelto di aderire alla Repubblica di Salò. Zeno lo presentò allo zio Silvio, che non conosceva quel ragazzo ma bene la famiglia, con la quale non correva buon sangue per via di appartenenze politiche, delle quali si augurava che Emilio non fosse a conoscenza. La presenza di Davide fu liquidata con poche parole sul suo essere un lontano parente in viaggio verso le Marche. Emilio era una persona innocente, non gli passò per la testa di chiedere cose su di loro. Appariva frastornato per la vita che improvvisamente gli era cambiata, dalla tranquillità del paese dal quale non si era mai mosso, all’oscurità della guerra nella quale stava per immergersi. Non provava paura, solo un senso di sbigottimento, di aspettativa inquieta. Non bastava a tranquillizzarlo la fede politica, o il fascino che la figura del Duce esercitava su tanti ragazzi come lui. Lui più degli altri lo aveva amato sin dalla scuola, incoraggiato dalla medesima fede di quelli di casa. Era stato il Duce, una presenza, un riferimento costante per tutti gli anni della sua giovane vita. Ed ora provava una pena profonda per quanto Gli era accaduto dal venticinque Luglio in poi. E con la pena per lui, un senso di frustrazione, che muoveva dal sentire la necessità di dover fare qualcosa. Così la cartolina per l’arruolamento, recapitata dai carabinieri, fu accolta come occasione per dare corpo a quei sentimenti nei confronti del Duce e dell’idea. E nell’accettazione giocò un ruolo l’incoraggiamento dei suoi. Solo la madre Annunziata non disse nulla e si chiuse in un mutismo che sapeva di preveggenza e che, dopo, l’avrebbe accompagnata per il resto della vita. Ma ora lì in quella stazione di Narni, davanti a quelle persone del suo paese che tornavano a casa, ogni certezza si consumava. Che avesse sbagliato? Gli balenò in mente la possibilità di tirare fuori gli abiti borghesi che ancora aveva con sé e tolta la divisa si sarebbe potuto unire a loro e tornare in paese.
Pensò..
Nella mente rivide la piazza con il negozio dei suoi, lì accanto. Dallo stradone vicino sarebbe giunta la voce dei Toccaceli, quelli dell’altro negozio di alimentari.
Rivali, ma con bonomia, le due famiglie di esercenti, anche perché il negozio dei Toccaceli era qualcosa di diverso da quello dei Bartocci, come da quello dei Cappelloni, da quello della Corinna, e da quello dei Biscontini: gli altri negozi di alimentari posti più distanti dalla piazza. Diversi i Toccaceli perché oltre gli alimentari vendevano di tutto un po’: merceria, bigiotteria, arnesi vari. Quasi un supermercato ante litteram gestito dai tre fratelli e le mogli dei due più grandi. C’era anche il padre Settimio e la moglie di questi che morì prima di tutti. Analfabeta che si curava dei conti della clientela meglio di un computer. Allora esisteva un libretto dove si annotava la spesa e che veniva pagato alla fine del mese. Ma senza rigidità se i soldi non c’erano e allora l’indigenza era tanta, e i Toccaceli aspettavano il mese successivo. Mondo, Ivo, il vecchio Settimio, il povero Elio: questi i nomi degli uomini di casa Toccaceli. Quest’ultimo si sarebbe poi sfracellato un’estate sulla curva della Madonnella a bordo della Jaguar di un emigrante che dall’Australia era tornato in paese dopo tanti anni di lavoro e fortuna. Era tornato con quella macchina imbarcata sulla nave a testimoniare il benessere raggiunto, a riscattare la povertà passata, a suscitare la meraviglia e perché no l’invidia dei compaesani. Elio era un giovane galletto. Vent’anni, il figlio viziato e coccolato della famiglia Toccaceli un po’ gigolò e simpaticamente carogna in virtù dei suoi successi femminili. Elio chiese di guidare quel sogno di vettura e l’australiano lo accontentò mettendosi sul posto accanto. Rombando affrontarono quella curva stretta a tutta velocità, non si poteva fare diversamente con tutti gli sfaccendati accalcati sulla strada che li stavano guardando. L’emigrante non tornò in Australia. Li seppellirono insieme con grande concorso di gente. Ivo e Mondo erano straordinariamente gentili e professionali, avevano una parola per tutti e le parole erano diverse, come pure l’atteggiamento del viso, in relazione a chi avevano davanti. Ossequiosi con le persone importanti, dolci con i bambini, familiari con le persone normali, ammiccanti con le donne, con quelle che si aspettavano la battuta. Con le altre, con quelle che non avrebbero gradito, precisi, gentili, professionali, quasi distaccati. Ma poi e soprattutto, accadeva che prendevano ad affettare il prosciutto, le coup de theatre di ogni visita al negozio dei Tocaceli. Iniziava con l’affilamento della lama del lungo coltello. Afferrato un altro coltello con mosse ritmate e alternanti sfregavano le due lame ma con diversa pressione, sì che l’affilamento fosse maggiore sul coltello da usare, l’altro fungendo solo da supporto per l’operazione. Poi la mano guidata da un braccio impostato nella giusta inclinazione affettava il grande prosciutto da una estremità all’altra in fette sottili sempre dello stesso spessore e previa asportazione dei bordi indurirti e poi dell’eccesso di grasso del prosciutto. Alla fine della corsa l’altra mano prendeva tra due dita, ma solo un minimo contatto quasi etereo, quella cosa sospesa nell’aria e attaccata ancora con un ultimo tralcio al tendine. Liberata anche da questo, veleggiava per alcuni istanti nell’aria per essere poi deposta leggiadramente, come un ginnasta che si lancia dal cavallo o dagli anelli o come una ballerina che atterra dopo un salto mortale, sulla carta appositamente stesa di lato. Carta bianca trasparente, sottile, distesa a sua volta su una più spessa, tipo carta paglia. Infine il tutto veniva piegato in entrambi i lati e depositato sulla pesa. Non meno affascinante era l’affettamento della mortadella, il grande salsicciotto veniva depositato sul piano della affettatrice, una meravigliosa Berkel rossa. Con un braccio dentellato si solidarizzava la mortadella al piano, poi si afferrava il manico della mola che prendeva a girare e nel contempo metteva in movimento il piano avvicinando alla ruota con lama la carne che veniva affettata. Il tonno, le aringhe e altro pesce affumicato veniva conservato in grandi bidoni dai quali veniva estratto la porzione da vendere..
Pensò..
gli venne in mente anche il viso dell’Assuntina, l’aveva salutata il giorno prima di partire, non c’era ancora niente tra di loro ma con gli occhi si erano detti parole che chiedevano conferme. Non c’era stato il tempo e quel giorno quando l’aveva incontrata non ebbe il coraggio di dire nulla se non che sarebbe partito il giorno dopo per fare il soldato. Lei non chiese altro, solo negli occhi scese subitaneo un dolore che non trovò parole per raccontarsi. Il nome tradiva l’origine contadina. In paese alle bambine si dava nome Maria o Assunta il più spesso, ed il nome richiamava anche le feste religiose che coincidevano con i lavori della campagna. Assunta era piccola, ben fatta, grandi occhi neri e neri capelli che cadevano su quelli. Si illuminava di sorriso quando salutava, un sorriso buono di bambina, se non fosse espressione di un corpo ormai maturo di giovane donna. E questa cosa lo rendeva, il sorriso con una punta di malizia. E questa arrivava come un tormento agli occhi di Emilio. Pensava a lei, sognava di dirle i sentimenti e la passione che lei gli ispirava. Non era ancora riuscito, aveva aspettato una condizione propizia, ora non c’era più tempo.
Parlavano in un angolo della sala d’ingresso vicino la biglietteria, già i soldati stavano dirigendosi verso il treno per salire, Emilio si avvide che anche per lui era tempo di salutarli e andare con gli altri. La realtà del momento si potava via pensieri e sentimenti, era più forte dei desideri che potrebbero aver voluto mutare quella realtà. Ma essa si impone pervasiva e fa giustizia di tentennamenti o propositi diversi. I sensi entrano in assonanza con il circostante e rispondono con archi riflessi che si svolgono al disotto del tratto di corteccia cerebrale dove risiede la volontà. Ecco perché i soldati vengono abituati ad una dura disciplina. Serve ad annientare la fantasia, le idee, la volontà. Servono a creare un meccanismo perfetto che reagisce immediato all’ordine, senza pensare o pensare solamente per svolgere al meglio l’ordine. Emilio salutò e salì sul treno, solo una volta salito, si volse a guardarli e salutò con la mano. Di lui non si sarebbe saputo più nulla in paese, solo a guerra finita le incessanti ricerche della famiglia avrebbero condotto alla scoperta della sua fine. Fucilato insieme ad altri camerati del suo battaglione dai partigiani in Emilia nel maggio del quarantacinque, nei giorni successivi alla morte di Mussolini, e l’inizio del regolamento dei conti
La stazione in breve si vuotò, partito il treno militare era rimasta poca gente. Ora si trattava di decidere se aspettare per prendere il treno delle nove o incamminarsi a piedi. Decisero per la seconda ipotesi. L’aver visto tutti quei soldati scesi a Narni-scalo per il bombardamento della linea ferrata poco più a valle, e ricordando l’incursione aerea su Terni del giorno precedente li determinò nella scelta. Sembrava loro più prudente evitare quanto meno la ferrovia. Così presero la strada che andava verso San Gemini, ovvero la via Flaminia primitiva. Camminavano alacremente lungo il ciglio della strada, Il cielo era coperto, un vento di scirocco portava da sud nuvole nere che annunciavano pioggia, ma non ancora. La minaccia della pioggia si accompagnava ad una temperatura gradevole, mite, che sempre accompagna i venti da sud. E oltre la pianura e le colline si vedevano ad est le alte montagne dell’Appennino, di recente meta invernale della stagione sciistica in località Terminillo voluta da Mussolini per sottrarre i romani agli ozi della loro natura, nel tentativo di fortificare la razza. Continuavano il cammino in una campagna di terra buona, irrigata dal fiume Nera che scendeva giù dalla zona di Norcia. Sino alla confluenza con il Tevere nei pressi di Orte il fiume dava forma con emozioni ed incantamenti ad una vallata che prendeva il suo nome, val Nerina appunto. Lungo il suo corso paesi antichi, conventi, torri, pietra mirabilmente assembrata a cristallizzare un tratto di Medioevo nei giorni della modernità. Percorsi circa un paio di chilometri, era tempo di abbandonare la strada che li avrebbe portati a Massa Martana e a Bevagna, e invece riprendere quella che da Narni andava a Terni, ovvero la Flaminia moderna che li avrebbe portati a casa. Trovarono una strada di campagna che si inoltrava tra campi coltivati e casolari isolati meno imponenti di quelli in tufo delle campagne romane. Tirati su in pietra, come tutte le case in Umbria. Casolari a due piani, a terra le stalle, una scala esterna che dava ai piani alti, dov’era la cucina e la camera per dormire, nell’aia rimesse per gli attrezzi, stazzi per gli animali da cortile, il palo intorno al quale si raccoglieva la paglia. Passare per Terni era obbligatorio per il loro itinerario, la strada per andare a Sigillo passava di lì. Ma Terni era anche la città dove viveva da alcuni mesi Caterina, la sorella di Zeno e nipote di Silvio. Si sarebbero fermati da lei per un riposo, per mangiare, per chiedere notizie di casa. Procedevano tra campi arati di recente, alcuni con le grandi zolle rivoltate, altri già preparati per la semina con lo sminuzzamento delle zolle e il livellamento del terreno per evitare il ristagno dell’acqua. Grandi cumuli di concime organico giacevano ai lati dei campi pronti ad essere sparsi sul terreno, preziosa sostanza organica azotata, che avrebbe arricchito il terreno di sostanze nutrienti sì che le colture crescessero più rigogliose. Lavoro duro quello dei contadini che erano tutt’uno con le terre che coltivavano. Nascevano lì, nei casali dei poderi padronali, e morivano lì, o in altro casale se così comandava il caso o la volontà del padrone, con il breve intervallo del servizio militare, occasione per conoscere un mondo oltre il loro, e la breve vacanza poteva essere senza ritorno se i governanti si inventavano una guerra per la grandezza della patria e per i loro interessi. Comunque per logiche e teoremi al di sopra ed estranei alla gente di campagna. La loro era una vita di sopravvivenza, legata ai frutti della terra che lavoravano come destino. L’Italia era allora contadina per gran parte, il processo di inurbamento con il lavoro nelle fabbriche era iniziato da poco, non aveva ancora sovvertito i ritmi di una quotidianità che guardava ancora in alto, alla trascendenza perché quella storia di dolore e povertà avesse una giustificazione ed un premio. E per i contadini questo si esprimeva in una religiosità primitiva che il cristianesimo aveva ricoperto senza occultarla completamente. Un paganesimo cristiano che sovraintendeva alla vita degli uomini e dei campi, con divinità agresti santificate e accolte nella toponomastica cristiana. E così le bambine avevano il nome di Maria e di Assunta e di altri attributi della Vergine e dei santi, e sui campi si mettevano cannucce a creare il segno della croce per impetrare la protezione divina sul raccolto, come prima si era sacrificato alla dea Cere o Ghea.
Procedevano con passo meno sostenuto, cominciavano a sentire il morso della fame. La sbobba ingurgitata alla stazione di Narni se n’era andata nei meandri del metabolismo, urgeva altro carburante per sostenere il cammino. Sarebbe stato opportuno non arrivare stanchi ed affamati a casa della Caterina, anche per un fatto di dignità. Dopo una curva della strada bianca che stavano percorrendo, videro a breve distanza un gruppo di case come accade di vedere talvolta, invece dei più frequenti casolari isolati. Si verifica quando il podere è grande e numerosa la famiglia contadina. Le case si susseguivano una all’altra a delimitare uno spazio su cui si affacciava una minuscola chiesa. Era un segno della divinità che dalla trascendenza celeste si calava nella vita degli uomini per dare una senso alla loro fatica, alle sciagure, alle gioie, ai momenti di felicità, alla vita e alla morte. Era il Dio cristiano che si sostituiva agli dei pagani che avevano albergato in quei luoghi prima. Per il pensiero laico tutto ciò era conferma del bisogno dell’uomo non evoluto di inventare una trascendenza in mancanza degli strumenti razionali della conoscenza, che il cervello colto ed educato della modernità avrebbe conquistato. Quelli si sarebbero incaricati di fare giustizia delle superstizioni e di tutto il ciarpame ideologico che ne era a fondamento. Ma intanto lì in quel tratto di campagna ternana l’evoluzione darwiniana non si era ancora compiuta e la gente viveva e moriva con i ritmi di sempre. Arrivarono nella piazzetta, e si avvidero dal silenzio che aleggiava nell’aria che’ gli uomini non c’erano, probabilmente intenti ai lavori nei campi intorno. Si avvicinarono alla porta dell’uscio della prima casa. C’era una tenda che chiudeva il passaggio di quelle che le donne usano mettere l’estate per proteggere il vano dai raggi del sole e mitigare il calore dell’aria, oltre limitare l’ingresso di mosche e zanzare. La scostarono e Silvio disse “permesso, si può entrare?. Una voce di donna rispose: “favorite”. Entrarono, c’erano solo donne: un’anziana, una di mezza età e una giovane: tre generazioni raccolte in quella stanza. Silvio proseguì “ siamo in viaggio diretti a Terni, stamattina siamo partiti dalla stazione di Narni scalo e ora abbiamo preso per la campagna per raggiungere la Flaminia all’altezza di Ponte san Lorenzo. Abbiamo visto le vostre case… così abbiamo pensato che siccome sono finite le provviste, se, pagando, potevamo avere del pane e del companatico, magari anche del vino”. Le donne risposero che gli uomini erano nei campi, avrebbero dovuto chiedere a loro, ma visto che si presentavano con una faccia di persone per bene, entrassero pure che qualcosa gli avrebbero dato. Silvio e gli altri posero per terra gli zaini e si accomodarono sulle sedie di paglia che circondavano il tavolino in mezzo alla stanza. La donna anziana aprì la “mattera” posta in un angolo della stanza , ne tirò fuori del pane , una forma di formaggio e una lonza. Mise tutto sul tavolo dove troneggiava un bottiglione di vino rosato e un bicchiere. I tre viandanti affettarono con cura e parsimonia il pane, e il companatico, lo misero su un piatto che la donna di mezza età aveva portato loro, e riposto il coltello a serramanico che avevano usato, presero a mangiare. Tra un boccone e l’altro bevevano a turno sull’unico bicchiere versandolo dal bottiglione al centro del tavolo. Era un vino asprigno, di quelli che si fanno in campagna senza chimica, con l’inevitabile sapore di tannino. Zeno e Silvio scambiarono parole con le donne, chiesero dei loro uomini, che quelle avevano detto intenti ai lavori della campagna. In casa c’era solo il vecchio nonno che ora era nella stalla ad accudire le vacche e il piccolo vitello nato la settimana precedente. Per lo più se quel giorno non ci fosse stata l’incombenza del vitellino, avrebbe passato il tempo fuori su una sedia con la schiena appoggiato sul muro di casa, sole permettendo, e se il sole non c’era coperto da un mantello.
Daniele si era alzato e uscì sull’aia a fumare una sigaretta. Appoggiato sul muro della casa, con il sole mattutino che aveva fatto capolino tra le nuvole, godeva del calore che penetrava oltre gli abiti a riscaldare il corpo. Ad occhi chiusi aspirava il fumo della sigaretta, e si abbandonava al tepore dell’aria. La mente libera di pensieri, tutt’uno con il corpo. I sensi esaltati dal calore del sole. Sentì come un fruscio, poi una mano si strinse alla sua con dolcezza. Non si mosse, nessun pensiero turbò un languore che sapeva di piacere e di attesa di uno maggiore. Rimase con gli occhi chiusi. Labbra carnose sfiorarono le sue e premendo si schiusero un po’. Poi la sua mano fu trascinata in alto sotto una camicetta, lasciata libera ad accarezzare un seno grande e morbido, e il bocciolo al centro diventato turgido. Il corpo della donna aderiva a lui. Daniele tentò di liberarsi per abbracciare quel corpo e stringerlo ancora più a sé. Ma in quel fare questo si divincolò in un lampo. Quando aprì gli occhi era già sparita, non c’era più nessuno intorno. Daniele rientrò in casa ancora sconvolto, se ne avvidero gli altri. Lui si schernì attribuendo al sole quel rossore delle guance. C’era la donna anziana e quella che aveva dato loro da mangiare, non la ragazza. Finito di consumare il pasto e bevuto con parsimonia il vino data l’ora del giorno, chiesero di pagare il dovuto. Le donne si schernirono, non sapevano cosa avrebbero dovuto chiedere, non sarebbe stata comunque una loro funzione, ancorché praticabile. Il loro non era un servizio commerciale, e non era mai accaduto prima di far pagare qualcuno che si era seduto nella loro cucina. Non si era mai trattato di viandanti, la strada che passava davanti a casa non era di comunicazione, era una strada tra i campi, dunque lì non passavano viandanti e infatti non avevano capito bene perché quelli si erano trovati a passare di lì. Così dissero, ma al di là delle parole, probabilmente c’era in loro un retaggio dell’antico costume della ospitalità che mutati i tempi rimaneva nel profondo della loro mente come determinante genetico. Comunque fosse non chiesero nulla, ma Silvio lasciò sul tavolo alcune lire. Erano quelle che con un rapido conto avrebbero dovuto pagare in una locanda. Salutarono, ringraziarono, fecero auguri per tutto e se ne andarono. Daniele era rimasto silenzioso, ancora in subbuglio, guardava con gli occhi intorno per vedere la ragazza. Era certamente lei la misteriosa donna che lo aveva baciato. L’emozione era stata talmente intensa che andarsene era un dolore, come di una storia d’amore appena cominciata e scomparsa, senza nemmeno vedere chi fosse l’artefice di quello sconquasso. Gli batteva ancora il cuore ed era passato ormai del tempo. Non si risolveva ad andarsene, chiese agli altri se potevano riposarsi ancora un po’, c’era ancora strada da fare prima di arrivare a Terni. Ma quelli non ascoltarono, si erano ormai congedati dalle donne e non capivano il suo atteggiamento. Lui che era il più giovane, chiedeva di riposarsi ancora! Così, oltrepassata la porta e scostata la tenda, uscirono sull’aia e presero per proseguire lungo la strada in direzione Ponte san Lorenzo. Daniele continuò a guardare intorno. D’un tratto, dietro una finestra del piano superiore dov’era la stanza del riposo notturno, vide il viso della ragazza. Non appena i loro sguardi si incrociarono, lei si ritrasse. Nella mente di Daniele come su una lastra d’argento dei fotografi, si impresse un viso ovale dalla carnagione olivastra, due occhi neri, capelli lunghi neri come gli occhi che incorniciavano il volto. Gli alberi, i campi, il cielo intorno avevano solo il suo volto. Gli sembrò che nel mondo in quel giorno e sempre dalla notte dei tempi e sino alla fine dei giorni dell’universo, non ci sarebbe stato niente di più bello. Quel rapporto fugace, vissuto un istante prima che si corrompesse, nei meandri del sesso o della noia era un annuncio di eternità, metafora dell’inarrestabile fluire delle cose verso il loro dissolversi. Ma per un attimo quel fluire verso la morte si materializzava in qualcosa che aveva il sapore, il colore, la bellezza dell’eterno. E dunque era giusto che in lui rimanesse l’indeterminazione dell’accaduto, che la felicità non diventasse materica, ma sospesa, che la materia coagulata in quell’attimo si dissolvesse per riprendere la corsa dei flutti verso la fine.
Davide riprese la testa della comitiva a fare l’andatura in silenzio, in silenzio camminavano Silvio e Zeno. Era mattino inoltrato, il sole splendeva tra le nuvole che si erano andate diradando. Camminare in pianura tra i campi era quasi piacevole, la sosta e il pasto li avevano rinfrancati. Dopo alcuni chilometri cominciarono ad intravedere le case del borgo di Ponte San Lorenzo dove avrebbero raggiunto la flaminia, e da lì avrebbero preso per Terni senza fermarsi più. La strada bianca finì in una piazzola circondata da case che era il centro del borgo di San Lorenzo. A lato correva la Flaminia. Gente in giro intenta alle faccende di ogni giorno, transito di persone e mezzi lungo la flaminia. Sembrava un normale giorno di un qualsiasi anno, in uno sconosciuto luogo del mondo. Le donne preparavano per il pranzo, i bambini giocavano nella piazza, gli uomini andavano e tornavano dalla campagna, i vecchi chiacchieravano seduti sulle sedie dello spaccio. Erano passati gli aerei in cielo il giorno prima a bombardare Terni, ma lì non era successo niente. La giornata si srotolava apparentemente serena dimentica di ierie ignara del domani. Alcuni giovani erano tornati a casa dai fronti sconfitti della guerra e se nestavano nascosti in casa nel grembo della famiglia, che si era chiusa su di loro come monade protettiva. Lo stato, con le autorità e le istituzioni era frammentato, distrutto. In quel vuoto di certezze e ideologie si riaffermavano le cose importanti dell’esistere. La famiglia, la terra, la casa, la gente conosciuta di sempre.C’era anche la chiesa in borgo San Lorenzo, minuta,adatta per la piccola comunità. E c’era anche il prete. Ci andavano la domenica e le feste comandate, come momento di festa. Per qualcuno era qualcosa di più, vi trovava un senso a quell’esistere, una speranza, la risposta a un perché. Imboccarono la Flaminia, rimaneva da percorrere una decina di chilometri per arrivare a Terni. Continuando con quell’andatura in poco più di un’ora sarebbero arrivati a casa della Caterina. Zeno chiudeva la fila, il passo gli era diventato faticoso, per questo si era messo dietro a Silvio che camminava lento data l’età. Davanti Davide rallentava quando siaccorgeva di staccarli. Si era messo dietro Zeno perché gli era ricomparso quel dolore sotto il costato a destra, che ogni tanto lo prendeva e che ora rendeva faticoso il cammino. In passato quando si manifestava il dolore aveva imparato a darci sopra dei cazzotti per farlo sparire. Funzionava, il dolore provocato dai pugni copriva quello profondo, poi dopo un po’ sparivano entrambi. Non sapeva cosa fosse, la madre in passato lo aveva curato con delle purghe che si pensava, per la gente del popolo risolutive di qualsiasi malanno addominale. Qualche vecchio della famiglia aveva raccontato di quel dolore e costoro nel tempo erano diventati gialli e ne erano morti. Ma lui era ancora giovane, aveva ancora tempo. E poi ricordava che quelli per il lavoro che facevano qualche bicchiere di troppo se lo concedevano, poteva essere anche quella la causa. Ne aveva parlato una volta con Roul Braccini, suo compagno di banco a scuola, ora studente di Medicina alla Normale di Pisa. Loaveva incontrato in quella città in occasione del cantiere di lavoro che lo aveva tenuto lì per alcuni mesi. Raoul gli aveva detto che si poteva trattare del fegato. Dunque si doveva astenere dal bere alcoolici e dalmangiare schifezze grasse. Così da allora per quanto gli fu possibile, lui aveva seguito quelle raccomandazioni, era l’unica cosa che poteva fare. Stavano percorrendo l’ultimo tratto della strada, di lì a poco sarebbero arrivati a Terni. Qualche casolare prospicente alla città mostrava i segni del bombardamento del giorno precedente. Si tenevano larghi gli angloamericani, nel far cadere le bombe dai loro aerei gracchianti nel cielo delle nostre città. Dovevano colpire obbiettivi militari e strategici, come strade e ponti , ma non disdegnavano di colpire obbiettivi civili. Case e casolari e chiese con i civili dentro, gente che c’entrava poco con la guerra, innocenti come si direbbe oggi per commemorare le vittime civili delle tante guerre che dopo quella mondiale del 39-45 hanno continuato a deflagrare in giro per il mondo. A ricordarci se ce ne fosse stato bisognoche la violenza fa parte dell’uomo e la pace è solo una pausa nella lotta bestiale di sopraffazione dell’uno sull’altro, magari ammantata da nobili principi. Oppure potrebbe essere vero anche il contrario, i nobili fini hanno bisogno del sangue dell’uomo per affermarsi. Già, che non suoni blasfemo, ce lo testimoniò in Cristo salvando l’umanità con il suo sangue. Non c’era altro modo, oltre le parole, oltre l’onnipotenza, ci voleva quella violenza per ottenere lo scopo. Com’è delle donne che per diventare madri e generare hanno bisogno di quella prima violenza, di quel sangue, che segna ilpassaggio dall’adolescenza alla maturità. Così per i maschi semiti il violento, sanguinoso taglio del prepuzio segna l’ingresso nella comunità. E per estirpare il tumore annidato nei visceri bisogna violentare il corpo e far uscire sangue che lorda le mani del chirurgo. La strada che conduce a Utopia è lorda di sangue, come l’Essere che deve storicizzarsi e diventare materia per riconoscersi ed esistere. Ma gli anglo-americani non pensavano a queste cose, semplicemente uccidevano la popolazione perché avevano detto loro che serviva vincere la guerra e tornare presto a casa. Terrorizzata dalla paura la gente avrebbe fatto mancare il suo appoggio a coloro che resistevano. Il terrore più forte della conquista della libertà, della democrazia e di tutte le altre amenità che si sono inventati per raccontare quella storia di violenza. Qualcuno di quei soldati ci metteva del suo perché aveva subito lutti a causa nostra, qualcun’altro obbediva malvolentieri non comprendendo quell’accanimento sui civili. Terni era città industriale, non conservava nulla del borgo antico dei secoli passati, né dell’Interamna romana, florido municipio posto alla confluenza di due fiumi: il Nera e il Serra. Vi confluivano anche le acque del Velinoattraverso un’opera che i romani avevano provveduto a rendere spettacolare con il deflusso dell’invaso reatino in quello ternano. E furono le cascate delle Marmore con i fantastici giochi di acque lungo la parete rocciosa. I nostri entrarono in città che si svolgeva lungo la via Flaminia che l’attraversava tutta da un capo all’altro sino alla porta spoletina da cui si usciva dall’abitato. Oltre gli edifici civili, religiosi, e pubblici c’erano enormi stabilimenti che occupavano la campagna circostante, in prossimità delle colline dove sorgeva Papigno. Acciaierie e fabbriche di armi che il regime aveva sviluppato per preparare la nazione alla politica di potenza a cui riteneva fosse destinata. Ma le fabbriche avevano una storia più antica, risaliva alla seconda metà dell’Ottocento nel tempo della rivoluzione industriale d’Europa, che per l’Italia vide in Terni un primo importante centro. Per altro come tante città poste lungo il corso di fiumi e ricche dunque di acqua, anche nei secoli precedenti la città era stata sede di opifici che traevano l’energia dall’acqua. A nobilitare la vocazione industriale e mercantile, Terni annoverava tra i suoi cittadini un imperatore, Tacito come le fonti storiche attestano, e forse il grande filosofo omonimo. Ma questa cosa è una supposizione non confermata, se non per il nome. Procedevano lungo la strada, in una giornata che era diventata luminosa, bella avedersi e a sentircisi dentro. Il cuore si rallegrava, ma ad affliggere quello stato d’animo c’era il mare di macerie che si presentava ai loro occhi nel procedere. Il giorno precedente le fortezze volanti avevano colpito duro, case distrutte, mattoni e pietre ancora fumanti. Grappoli di persone intorno alle macerie nel tentativo di recuperare quello che rimaneva delle cose della vita.Voragini sulle coperture dei grandi stabilimenti che si vedevano in lontananza. La gente parlava sommessa, come chi scampato un pericolo mortale apre l’animo al dolore che la vita conservata gli propone. I congiunti feriti o uccisi, la casa distrutta, la necessità di ricominciare a vivere.
Ma come? Ognuno aveva un suo lutto, una sua difficoltà. Intanto si cominciava a mani nude a rovistare tra le macerie, non c’era altro da fare. Avrebbero trovato lì il senso e la prospettiva del domani. Udirono qualcuno che raccontava di un allarme scattato troppo tardi che non aveva permesso a tutti il riparo nei rifugi. Ne era seguita una strage di civili. Silvio e Zeno temettero per la Caterina. Lei abitava in una delle case a schiera lungo il tratto nord della Flaminia, quello più prospicente alle acciaierie, il timore che la sua casa poteva essere stata colpita era giustificato. Affrettarono il passo e quando giunsero in prossimità della casa, tirarono un sospiro di sollievo: quella e le altre intorno erano intatte. Le bombe lì non erano cadute. La casa di Caterina era parte di un lungo caseggiato a schiera, come accadeva di vedere nelle città industriali. Alloggio dei lavoratori delle fabbriche, medesimo luogo di lavoro e della vita al di fuori della fabbrica. Caratterizzava l’appartenenza ad una classe distinta da quella dei borghesi abitanti del centro cittadino o nelle ville della campagna limitrofa. La transumanza delle classi, la rottura evidente degli seccati non si era ancora consumata, ma la cosa se pur segno di una sorta di ghettizzazione , creava anche una identità forte, da cui sarebbero nati sommovimenti sociali e nuovi equilibri. Caterina abitava lì con il marito vigile del fuoco a Terni. Lo aveva conosciuto in occasione di un cantiere che il padre Umberto seguiva da assistente nella città. In quella occasione Umberto aveva portato con sé la famiglia.Il soggiorno ternano fu occasione d’incontro tra i due giovani, ne seguì il fidanzamento e poi il matrimonio. Zeno bussò alla porta, vi si arrivava percorrendo un minuscolo giardinetto che correva a ridosso della strada diviso da questa tramite un basso muretto di mattoni rosa. Le case erano basse: un piano terra e un primo piano sopra a cui si accedeva da una scala interna. Quelle poste all’inizio e alla fina della schiera avevano la scala esterna a riproporre il modulo delle case contadine della campagna umbra. Come memoria di ciò che si era prima della modernità: riscatto e nostalgia ad un tempo. Dentro: la cucina, il bagno e una stanza d’ingresso al piano terra, e al primo piano le stanze da letto. Zeno bussò ancora e da dentro si sentì una voce femminile rispondere: “chiè?”.“Sono tuo fratello Zeno, Caterina ci apri”? Lei corse ad aprire, allargò le braccia e strinse a sé il fratello. Si amavano, lui era il fratello maggiore, l’orgoglio della famiglia. Dopo i genitori era un altro padre per tutti i fratelli e le sorelle, e lei era la più grande delle sorelle, dunque si sentiva di avere con lui un rapporto preferenziale. Quando Zeno tornava a casa dai lavori in giro per l’Italia, portava un regalo a tutti e quello per Caterina era il più bello. Era festa grande in casa e ora trovarselo davanti inaspettato era felicità assoluta. Entrarono in casa seguiti da Silvio e Davide. Si raccontarono e mentre le parole muovevano l’aria Caterina si mise a preparare da mangiare. Allo zio Silvio che le chiedeva del marito Andrea, lei disse che si trovava al lavoro. Sarebbe tornato tardi o per niente, era tra le macerie delle case bombardate. Il giorno precedente. era tornato verso mezzanotte, poi all’alba era ripartito. Lei era preoccupata per quel lavoro pericoloso in specie durante una guerra, ma era meglio che andare al fronte. L’essere vigile del fuoco in quella città ricca di fabbriche e opifici vari e grandi complessi industriali dell’acciaio, della chimica, delle armi, lo aveva esentato l’anno prima dall’esserearruolato nell’esercito e mandato sul fronte russo. Come poi seppe che era accaduto per la divisione dove sarebbe stato arruolato. Dunque era preoccupata per il suo lavoro di vigile, ma meglio cosi ed averlo con sé, piuttosto che saperlo lontano ed esposto a più gravi pericoli della guerra. Poi lei raccontava che Andrea era uomo prudente, si augurava, voleva essere certa che non gli sarebbe successo niente. Silvio e Davide si erano messi a sedere intorno alla tavola che Caterina aveva velocemente preparato, in un intervallo del lavoro ai fornelli, in compagnia di Zeno. Si raccontavano dei loro a Sigillo. Lei nominava poco Regina e Tarquinio, c’era una gelosia non manifesta , tenuta nascosta , per quella sottrazione del fratello dagliaffetti antichi, almeno in parte, da quando si era sposato. Zeno aveva mantenuto l’affetto di sempre per la famiglia d’origine, ma si capiva che quello nuovo per la moglie e il figlio aveva tolto qualcosa, magari impercettibile a quello antico. Così i rapporti di Caterina e delle sorelle con la Regina non erano, e non sarebbero mai stati limpidi. Covava sempre un malumore di fondo che la ragione nonaccettava, ma quello pervicace resisteva. Si misero a tavola anche loro due, una volta terminato di cucinare. Era riuscita a preparare un bel pranzo con quello che l’economia di guerra consentiva.Memore dei costumi materninel giardinetto avanti casa, aveva seminato verdure ed ortaggi e non mancava un pollaio per animali da cortile, così uova e ogni tanto carne non mancava, accanto a quello che lo stipendio di Andrea e la tessera annonaria consentivanodi acquistare nei negozi, spesso carenti per la penuria causata dalla guerra. Alla fine tirò fuori anche un pò di caffè macinato con cui riempì il passino di una caffettiera quasi intonsa, segno del privilegio che accordava loro. Fu un piacere incredibile per i tre ospiti, che non ricordavano più il sapore del caffè vero. E quel finale accanto al cibo consumato fu occasione di infiniti ringraziamenti. Venne il tempo di andare, tutti e tre si alzarono e si diressero alla porta, Caterina si accostò ad un orecchio di Zeno e gli confidò la felicità immensa che in quel tempo di guerra fugava tutte le amarezze, paure e difficoltà: stava aspettando un figlio, il primo. Non lo sapeva nessuno, lo aveva detto solo a lui, oltre naturalmente ad Andrea. Si salutarono con un arrivederci a Sigillo. Speriamo presto disse lei sulla porta rivolta a loro già nella strada, incamminati in direzione di Spoleto.
La strada proseguiva diritta in direzione di un varco che si vedeva in lontananza tra le montagne che chiudevano a nord est la conca ternana. Nel lasciare la città il terreno iniziò a salire leggermente, annunciando il percorso verso un valico che li avrebbe fatti salire di 600 metri rispetto all’altitudine della pianura ternana. Abbandonatele case aschiera della periferia passarono davanti a case singole che si fecero via via più rare e discoste dalla strada, sino a perdersi lontane nelle forre e nei rari tratti di campagna circostante. A destra sulle alturevidero il paese di Papigno, subito sopra le acciaierie da cui i suoi abitanti traevano occasione di lavoro e di malanni.Quest’ultimi contratti in fabbrica e potenziati durante il riposo a casa per i i fumi degli altoforni che arrivavano sin lì, a colpire tutti loro e le loro famiglie. Ma di queste cose si sarebbe parlato solo molti anni dopo. Allora non si avevano queste attenzioni per la salute nei posti di lavoro, e in quel periodo, con la guerra in atto, ancor meno. L’attenzione ai bisogni della gente è pratica virtuosa e anche ruffiana per ottenere il consenso. Ma è dei tempi di floridezza e di pace, non dei tempi di trasformazione e di avventura come furono quelli del regime fascista, che alla fine avevano significato la guerra scellerata. Arrivarono alla frazione di San Carlo. Si trattava di poche case a ridosso della Flaminia. La località segnava il confine tra la conca ternana e l’inizio della stretta gola che avrebbe portato al valico della Somma. Così si chiamava il passo che delimitava da un lato il territorio ternano e dall’altro l’ampia pianura umbra che da Spoleto si estende sino a Perugia e dove sorge Foligno, Assisi e tutte le altre località sparse nella pianura e sulle colline che la circondano. Il valico era anche il confine tra due province: Terni e Perugia.Era di quegli anni l’istituzione della provincia di Terni. Si diceva che Mussolini per dare ai romani una loro montagna dove sciare tolse il Terminillo e il territorio circostante all’Umbria a favore del Lazio, creando due nuove province: Rieti nel Lazio e Terni in Umbria. La strada era stretta, due carreggiate striminzite su cui l’incrocio di due mezzi era possibile solo nei tratti lineari, non in curva. Accanto alla strada correva un viottolo, forse antico tratturo, lì da prima che il console Flaminio costruisse la via. Questo tratturo nei tratti meno rocciosi del percorso si allontanava un po’ dalla strada immergendosi nel verde circostante. Per tale motivo presero a percorrerlo: una precauzione opportuna in quei tempi perigliosi. La natura intorno era scarsamente antropizzata, nei tratti boscosi lussureggiante. Pini, querce, lecci , carpini, ornelli, coprivano i fianchi delle montagne che si affacciavano sulla vallata, forse prodotta da un corso d’acqua di cui non c’era più traccia. Il tempo era bello, splendeva il sole in un cielo privo di nuvole. In alto volteggiava una coppia di poiane, cercavano sui fianchi della montagna l’aria calda che i raggi del sole in un ultimo bagliore riscaldava. Dall’alto avrebbero scommesso di trovare qualcosa per chi nel nido, con i becchi aperti, aspettava del cibo per sopravvivere un altro giorno ancora nell’attesa del volo per il quale si stavano preparando e che li avrebbe affrancati dalla tutela genitoriale.Il sole sarebbe scomparsoa breve dietro le montagne ad occidente, per intanto l’aria serena sapeva di un autunno tenace che rimpiangeva l’estate trascorsa e si ritraeva dalla inevitabile metamorfosi nell’inverno incombente. Nessuno in giro, non c’era campagna coltivabile intorno, erano scomparsi i casolari dei contadini della pianura. Rare case lungo i contrafforti probabilmente di boscaioli. Un po’ di gente l’avrebbero trovata una volta arrivati al paese di Strettura, l’unico paesello di quel tratto della Flaminia da dove sarebbe cominciata la salita più aspra. Strettura che già nel nome annunciava che da lì in poi il percorso sarebbe stato più angusto con la strada che dal fondo valle si sarebbe scavata una fenditura sul fianco occidentale della montagna. E in quel secondo tratto la strada sarebbe salita di molto sino ad arrivare al valico.Per intanto camminavano di buon passo spesso appaiati dove la strada lo consentiva. Erano partiti il mattino dalla stazione di Narni scalo, dopo circa 15 chilometri compresa la sosta a san Lorenzo erano arrivati a Terni a casa della Caterina, partiti di lì, una volta arrivati a Strettura dopo altri 15 chilometri, in totale avrebbero percorso dal mattino 30 chilometri. Era pomeriggio, se il tempo si fosse mantenuto bello forse ce l’avrebbero fata a percorrere l’ultimo tratto di salita sino al Valico.
Non sentivano ancora la stanchezza delle membra, la mente era tutta votataa coordinare l’attività dei muscoli e del cuore, lasciava poco spazio a ragionamenti o programmi, come se la sua parte nobile si fosse addormentata a favore della parte vegetativa, quella più profonda, ancestrale che aveva a che fare con la fisiologia degli organi e di quelli locomotori in particolare . Il corpo era chiamato a camminare e finché non fosse sopraggiunta la stanchezza, godeva dell’armonioso movimento delle ossa , dei muscoli, del fluire accelerato del sangue nei vasi, dell’aria aspirata da polmoni dilatati. La specie uomo ci aveva messo qualche milione di anni per arrivare a quella perfezione, daquando era riuscito ad alzarsi dal suolo e ad ergersi eretto sul circostante. Allora cominciò a camminare e non si fermò più, sinoa colonizzare il mondo. Ma da qualche parte, nelle pieghe dei muscoli, delle ossa, odegli altri organi era custodita la memoria di quel processo straordinario di cui la mente era inconsapevole, arrivata dopo, per ultima, relegatain un’impenetrabile calotta dura,quasi a non voler mischiarsi con il sottostante, separata, se pur collegata a tutto il resto attraverso emissari con pretesa di dominio. No,tutto quello che era accaduto, era scritto in una lingua non decifrabile dalla mente, aveva a che fare con qualcosa di diverso, complementare alla ragione che albergava in luoghi sconosciuti. Un mistero di cui rimaneva traccia, come di cosa buona con quel senso di soddisfazione e piacevolezza che veniva dallo svolgersi di quelle funzioni del corpo. Era un ringraziamento all’artefice sconosciuto di quel miracolo. Era percorrere i territori del divino.La mente c’entrava solo come starter, come nel loro caso quando aveva impresso l’ordine di muoversi. Bisognava portare quell’ammasso di cellule, funzioni, e le astrazioni fantastiche del pensiero, lontano da Terni e sempre più vicino al loro paese, per raggiungere il quale si erano messi in viaggio. Il corpo sapeva che questo era il suo compito, le altre funzioni come quelle nobili del cervello erano un di più. Ma il di più c’è sempre, magari inespresso e sotterraneo e in quel momento per loro erano pensieri e parole in libertà che uscivano rivolte agli altri e al mondo intorno, ma senza attendersi risposte, come un motore acceso al minimo, non in marcia. Parole dall’uno all’altro e dall’altro al circostante costruite e rese alate da ricordi, sensazioni corporali, figlie di un corticalità a riposo, in attesa di altri più impegnativi cimenti.
Io non sono stanco e voi? disse Silvio, poi qui l’aria è buona non è quella malsana che abbiamo respirato a Terni e questo aiuta, aggiunse. Non vi pare?Assentirono gli altri e a ciascuno quel richiamare la salubrità dell’aria fece venire in mente ricordi: Zeno risentì l’aria di montagna di quando da ragazzi siandava a fare legna sul monte sopra il paese, così anche per Davide la mente andava alle scarpinate sull’alta montagna che si erge sopra la marina e al sapore di mare che si mescolava a quello del monte. Silvio riprese sullo stesso argomento e raccontava l’aria pesante, malata, della campagna romana quando avevano cominciato a porre il cantiere dell’Expo 42. Gli altri aggiunsero altre cose che non centravamo più con l’aria. Da una cosa all’altra, parole in libertà scambiate l’un l’altro,suggello del loro star insieme, del vincolo di comunione che li univa , anche con il nuovo, l’aggiunto , sconosciuto sino a due giorni prima. Le loro voci avevano rotto il silenzio di quell’ora del pomeriggio. La temperatura quasi da tarda estate avevano chetato la vita arborea e animale circostante. Solo il volo discreto degli uccellimigratori in alto sopra le cime dei monti, aveva fatto da contrappunto alle parole degli umani in basso. Lungo la strada da quando erano entrati nella gola tra i monti non avevano incontrato nessuno: se n’erano meravigliati. Quando ormai, intenti a camminare e presi da altri pensieri, la meraviglia del mancato traffico era scomparsa, d’improvviso udirono il rumore di un camion in lontananza che, provenendo dalla parte di Spoleto, si stava avvicinando. Arrivò veloce ma la strada in quel tratto presentava un avvallamento che costrinse il guidatore a rallentare il passo, così dal tendone posteriore scompigliato dal vento della corsa, affiorarono visi di ragazzi seduti sulle due panche laterali, stretti l’uno all’altro, con gli occhi a guardare il compagno difronte.Qualcuno indossava la camicia nera, i più in abiti civili, alcuni con un moschetto in mano, come da esercitazione premilitare frettolosamente interrotta. Pochi di loro dal volto deciso, come di chi avviato verso qualcosa che aspettavano con impazienza da tempo, da sempre. Gli altri con qualche piega sul bel volto della giovinezza che raccontava preoccupazione e indecisione. Li videro bene i nostri, loro visibili parzialmente coperti com’erano dalla vegetazione che nascondeva il tratturo. Ma uno dei destinati a triste sorte li vide, loro si accorsero e ne ebbero paura. Ma quello non disse niente e quando il camion riprese la sua andatura veloce con una mano, non visto dagli altri, li salutò. Loro risposero. I cuori di padri di Silvio e Zeno si riempirono di commozione. Incontri nei giorni della vita. Destini di gente sconosciuta che si incrociano. Il bisogno di una comunione, una mano che si protende, mossa da antiche virtù. Un attimo e poi via, ognuno per strade diverse. Incontri come grani di un rosario. Danno un senso e un ristoro allungo andare della vita.
Pensarono fossero diretti a Terni per rispondere alla chiamata alle armi che il maresciallo Graziani aveva proclamato alcune settimane prima, dopo la riunione al cinema Adriano a Roma. Il camion riprese la sua corsa, udirono i versi di una canzone che parlava di giovinezza ma l’entusiasmo che colorava quella parola se n’era andato nella sabbia del deserto africano, nel ghiaccio della steppa russa, prima sui monti della Grecia, infine sotto le bombe dei liberatori anglo-americani.Prima di infrangersi nei gironi infernali del conflitto aveva colorato le adunate oceaniche del Duce, riscaldato il cuore di adolescenti, riempito di sogni e aspettative la vita. Ora tanti camion come quello trasportavano gli adolescenti di ieri verso la tragedia finale. Altri camion in giro per l’Europa ricolmi di soldati italiani guadagnavano i campi di concentramento tedeschi, dai quali solo una parte sarebbe tornata a casa.
Il canto dopo la prima curva si attenuò sino a scomparire. Dopo pochi mesi quegli stessi ragazzi o altri come loro, avrebbero cantato un’altra canzone, l’ultima. Il primo verso diceva così: le donne non ci vogliono più bene perché portiamo la camicia nera. Era così non solo le ragazze ma nessuno li amava più. Portavano addosso il puzzo della morte imminente, fucilati dai partigiani o dispersi e nascosti per il mondo.
Lasciarono il tratturo e tornarono sulla strada principale, in fondo cominciarono a vedere le case di Strettura. Vi arrivarono. Poche case in fila sui due lati della strada , qualche persona in giro, un negozio di alimentari, la chiesa in alto verso la montagna sul lato occidente, incredibilmente una farmacia, e un negozio di macelleria di carni bovine ed ovine. Si fermarono lì. C’era bisogno di provviste, forse vi avrebbero trovato qualcosa da poter conservare per i giorni a seguire. Speravano che le restrizioni della guerra non avessero colpito duro, magari qualcosa gli esercenti lo avevano nascosto, sottratto al commercio ufficiale. Si chiamava borsa nera e in città permetteva di andare avanti compensando la tessera annonaria. Soprattutto la vicinanza con i campi e i boschi di quella parte dell’Umbria dove c’era ancora chi coltivava terra e armenti lasciava sperare bene. Si era lontani da Terni e ancora anche da Spoleto, se non fosse stato per la strada di grande comunicazione, quel paese e la zona limitrofa poteva essere un angolo di mondo risparmiato dalla tragedia bellica. Entrarono, videro merce su un lungo bancone di pietra. Da un lato un po’ di carne salata per una lunga conservazione: una lonza, un capocollo, una parte di prosciutto, alcune salsicce secche. In mezzo da un gancio pendeva una vescica di strutto. Dall’altro lato un pane di coppa. C’era anche mezza forma di formaggio. Nel complesso poca roba, ma tanta per il periodo. Dietro il bancone un ragazzo poco più che adolescente con il quale, prima di parlare di acquisti i tre viaggiatori presero a chiedere e a fare domande. Lui non si sottrasse e confermò che il negozio si serviva dai contadini e allevatori di bestiame della zona. Più precisamente da quelli oltre la montagna, verso il territorio della val Nerina e la qualità del prodotto aveva creato un buon giro di clienti nel loro negozio. Ora si era ridotto per la guerra, e ultimamente avevano subito anche furti da sbandati che passavano per la via. Avevano timore che le cose sarebbero peggiorate da quando avevano visto transitare i tedeschi e sentito i bombardamenti su Terni che raccontavano l’avvicinarsi del fronte e l’incrudire anche in quelle contrade del conflitto. Di conseguenza macellavano di meno e sul bancone come loro avevano potuto vedere, oltre la coppa non c’era carne fresca. Solo quei prodotti salati preparati mesi prima. Quello che avevano, era stato messo tutto sul bancone il mattino, e quello che vedevano era ciò che era rimasto. Per tradizione quello era il giorno della settimana nel quale la gente del paese e del circondario veniva a fare spesa. Altrimenti negli altri giorni tenevano tutto in un ripostiglio fresco attiguo al negozio. Parlò di un padre che stava sotto le armi e di una madre e un fratello più piccolo che ora erano in casa. Il negozio lo mandava avanti la mamma e lui aiutava. In quel momento lei impegnata nelle faccende di casa con il fratellino che diligentemente le dava una mano. Aggiunse che comunque di lì a poco sarebbe venuta, anzi se volevano prendere qualcosa, era meglio che ci fosse lei e affacciatosi oltre una porta che dava sulla casa attigua la chiamò.
La donna dopo un po’ apparve sul vano che divideva il negozio dall’abitazione. Apparve sì, perché si trattò per i tre uomini di una visione. L’idea di bellezza femminile che ognuno di loro in modo diverso custodiva dentro di sé si materializzò per incanto, e per tutti, in quella donna che era apparsa sulla porta. Ai tre viaggiatori quasi si fermò il respiro e sgranarono gli occhi, non avevano mai vista una bellezza così perfetta. Indossava una veste, lunga sino al ginocchio, abbottonata sul davanti. In alto l’ultimo bottone slacciato scopriva ampiamente il collo, sino a chiudersi più in basso a coprire i seni dei quali lasciava intravedere il solco divisorio. La veste morbida e ampia non riusciva a nascondere il corpo con le sue sinuosità che urgevano dentro come in una prigione. E con il movimento si manifestavano, se pur coperte, e per questo più attraenti e disperanti. Si intuivano le cosce levigate che l’ultimo bottone slacciato lasciavano intravedere, come il seno florido, rotondo che appariva parzialmente nel muoversi di lato della donna, attraverso la scollatura. E quello che non si vedeva, appariva ancora più conturbante: una salienza della veste, esasperata dai capezzoli, che inutilmente e pudica ricopriva. Un corpo di media statura, formoso, ma nel contempo leggero ed elegante nel muoversi, un viso di un ovale perfetto, carnagione olivastra , una bocca che si apriva ad illuminare tutto il viso, due occhi neri come i capelli che ricadevano in ciocche sul collo e sulla fronte. Il tutto illuminato da un sorriso perenne, inevitabile corollario di tanta bellezza che si offriva agli altri. E con quel sorriso, guadagnato il bancone, si rivolse ai nuovi clienti così: cosa possiamo servire a questi bei signori?
La terza notte del viaggio
Loro, pur non parlandosi, sentirono tutti la non urgenza dell’acquisto, che avrebbe significato andarsene subito dopo, e non ci stava con il desiderio di prolungare quella sosta. C’entrava la bellezza della donna, certamente. Non perché avesse fatto intravedere loro, programmi malandrini: No! Più semplicemente volevano, se possibile, prolungare il piacere di quella visione di bellezza. Lei si era rivolta a loro con tale innocente gentilezza che il gesto di comprare, pagare e andarsene appariva come cosa mal fatta. Era bella sì, ma oltre quello, era donna sola con due figli: quasi avvertivano l’impulso di offrire protezione, fosse solo di gesti e parole e di un po’ del loro tempo. Così ripresero il discorso interrotto con il figlio al suo apparire e raccontarono di loro, al chiedere di lei da dove venissero e dove fossero diretti. Parlarono delle famiglie, quasi a significare che erano persone per bene e che non aveva nulla a temere: così era. Ciò nonostante nel parlare e nel suo muoversi dietro il bancone, lei lanciava, non voluti, inevitabili messaggi erotici, che mettevano a dura prova i sensi e gli ormoni adolescenziali di Davide. Dunque il ragazzo rivolgeva altrove mente ed occhi per placare l’ardore che urgeva nel corpo. Lei raccontò del marito che si trovava in Russia, e di cui non aveva più notizie da qualche mese. L’avevano arruolato nel luglio dell’anno precedente, destinazione, da quello che lui scrisse alcune settimane dopo, la parte meridionale del fronte russo sul fiume Don. Poi dal gennaio dell’anno in corso, le notizie avevano cominciato ad essere meno frequenti, fino ad interrompersi del tutto da qualche mese a quella parte. Era preoccupata, non lo faceva vedere ai figli, ma era preoccupata. Per lui e anche per loro. Non sapeva come sarebbero potuti andare avanti senza. Ora e in futuro se, Dio non volesse, gli fosse accaduto qualcosa. Erano soli, i genitori di lei, anziani, abitavano in paese ma avevano loro bisogno, non potevano darle sostegno di nessun tipo, oltre la vicinanza affettiva. Il marito era originario di un paese vicino, e non buoni erano i rapporti con i parenti che non l’avevano mai vista di buon occhio. Dunque sperava solo nell’aiuto del Signore e della Madonna a cui si raccomandava ogni giorno. Ma buone notizie dal fronte di guerra non venivano. Anzi si sentiva parlare da qualcuno del posto, che dichiarava di conoscere le cose di Russia e dell’andamento della guerra, per via di relazioni che intratteneva con importanti personalità a Roma, che le cose non andavano bene, soprattutto in Russia. A quelle parole Zeno fu mosso da un sentimento di pietà per la donna. Sapeva che le truppe italiane a gennaio avevano iniziato la grande ritirata, che si era conclusa a marzo. Dei sessantamila uomini dell’armata italiana ne erano tornati ventimila, circa un terzo. Gli altri dispersi nella grande pianura russa, chi morto congelato, o ucciso dai russi, chi accolto nelle case della popolazione locale, chi prigioniero nei campi di concentramento. Non aiuti dalla patria per i sopravvissuti in cattività. Si raccontò che fu contattato Togliatti, allora influente personalità politica a Mosca. I malevoli riferirono che lui rispondesse così: non farò niente per soldati di un esercito invasore fascista. Non dovevano essere qui! Altri più benevoli dissero che non poteva fare niente. Chi riuscì a tornare fu testimone di cose terrificanti riguardo alla ritirata a piedi nella neve. La nostra propaganda aveva esaltato gli atti di coraggio delle nostre truppe: il sacrificio degli alpini che si immolarono per consentire la ritirata al grosso delle truppe; o l’eroismo del generale Reverberi con i suoi a Nikolajevka, quando riuscì ad aprire un varco tra le truppe sovietiche che avevano bloccato la via della ritirata; e ancor più l’impresa del 42’ a Isbuscenskij, dove il Savoia Cavalleria caricò i russi al grido Savoia !!: sbaragliandoli. Ma le celebrazioni furono sottotono in un momento in cui appariva chiaro che si stava perdendo la guerra. Zeno pensò al fratello Alceste morto in Grecia l’anno prima, e quel sacrifico aveva consentito a lui il rientro in patria dall’Albania, dove era stato mandato come carrista, anche lui destinato al fronte greco. La fede socialista insieme agli avvenimenti che lo avevano coinvolto o di cui aveva notizia, lo confermava nel pensiero dell’assurdità di quel conflitto con la disfatta e la rovina che ne erano seguiti. Comprese che agli uomini giovani come lui, scampati alla morte o alle menomazioni fisiche, sarebbe spettato il compito di ricostruire l’Italia. Immaginava che poi non sarebbe stato nulla come prima. Ci sarebbe stato spazio per lui e gente come lui, un riscatto delle classi popolari dei lavoratori e dei contadini sotto l’insegna, sperava, del socialismo. Per intanto si trattava di portare a casa la pelle e poi vedere come si sarebbe svolte le cose. Nel frattempo erano arrivati due clienti, loro si erano fatti da parte, seduti intorno ad un tavolinetto in un angolo del negozio. Parlarono tra loro sulle cose da comperare per il viaggio. Considerarono anche, se fosse il caso di riprendere il cammino o fermarsi nel paese per la notte. Ormai era pomeriggio inoltrato, c’era ancora luce, ma tra non molto sarebbe tramontato il sole. Avevano avuto in animo di arrivare al valico, ma una volta lì, si sarebbero dovuti fermare, non potevano proseguire nella discesa per Spoleto al buio, di notte. Ora in quel paese avrebbero potuto cercato un alloggio, magari presso quella donna, o comunque chiedendo a lei dove. Decisero a quel modo anche se Silvio aveva fatto notare che lui se la sarebbe sentita di camminare ancora. Però gli dissero di considerare che oltre il resto, la strada sino al valico sarebbe stata in salita, dunque non agevole, in particolare per lui, dopo tutte quelle ore di cammino, da quando, il mattino, erano partiti dalla stazione di Narni. I sopraggiunti clienti, comprate due cose se n’erano andati, ed ora la donna era di nuovo libera e disponibile. Le chiesero di preparare dei viveri da portare via, individuandoli tra quelli esposte nel bancone. Lei aggiunse del pane che teneva in casa, del formaggio e come cosa non richiesta, al modo di un regalo, un dolce tipico di Terni, il “pan pepato”, di cui era rimasto un pezzo. Avevano continuato a parlare della guerra, della difficoltà di tirare avanti per le famiglie, a causa delle restrizioni alimentari e di tutti gli altri generi che occorrevano per vivere. Il presente e l’immediato futuro erano certamente foschi, con gli alleati che avanzavano, e i tedeschi che continuavano a scendere dal Brennero. Gli italiani in età d’armi: chi imboscato, chi arruolato tra le truppe dei fascisti irriducibili, chi fattosi partigiano, schierato con i passati nemici. Loro, i partigiani, consapevoli di essere dalla parte vincente del conflitto, che aveva contrapposto le democrazie occidentali e il paese dei soviet ai governi dittatoriali d’Europa: Germania e Italia in primis, con gli altri stati aggregatisi compresa la Francia sconfitta. La Russia era la variabile, nel senso di una dittatura schierata con le democrazie. Ma per vincere la Germania e i suoi alleati si erano messi tutti insieme e rimandato al poi l’emergere delle differenze. Sta di fatto che in Italia gli irriducibili avversari del fascismo della prima ora stavano venendo fuori, e dietro loro le fila si andavano ingrossando, mano a mano che l’avanzata alleata progrediva, e il destino finale della guerra appariva sempre più segnato. La donna seguiva e partecipava a quei discorsi degli uomini con atteggiamento mesto. Lei non sapeva di politica, ascoltava, ma quel parlare le procurava una stretta al cuore, un malessere, che veniva dalla preoccupazione del marito in Russia, insieme al pensiero della famiglia da tirare avanti. Fuori si era fatto scuro, e ormai era l’ora della chiusura del negozio. Lei non disse nulla ma nell’atteggiamento qualcosa tradiva un’impazienza. Loro se ne avvidero e avendo ormai preso la decisione di rimanere in paese, le comunicarono la cosa, chiedendole se potesse indicare un posto dove passare la notte. Lei rispose che in paese non c’erano alloggi, e non sapeva come avrebbe potuto aiutarli. Certamente non poteva ospitarli a casa per un problema di spazio e anche per la convenienza. I paesani avrebbero avuto qualcosa di cui sparlare. Immaginava i parenti del marito, se fossero venuti a conoscenza della cosa. Rimase in silenzio per un po’, poi disse che se si accontentavano, c’era dietro la casa, verso la campagna, non visibile dal paese, una rimessa. Sopra, un piano adibito a fienile al quale si accedeva con una scala. Era tutto coperto da pareti eccettuato sul davanti dove era aperto. Vi avrebbero potuto passare la notte visto che non faceva ancora freddo e con qualcosa con cui coprirsi sarebbero stati bene. Loro si consultarono, ma non a lungo e ringraziarono grati, aggiungendo che oltre alle provviste avrebbero pagato il disturbo del pernottamento. Solo che, aggiunse la donna, non dovevano farsi vedere per il motivo delle chiacchiere. Dunque, usciti dal negozio, che riprendessero la strada per il valico e poi deviassero per la campagna e da lì avrebbero potuto raggiungere il fienile. Presa la decisione vollero subito regolare i conti in modo che il mattino, svegliatisi alla prima luce, sarebbero partiti, non visti. La donna si schernì ma accolse con gioia il denaro che Silvio, fatto un rapido conto, decise fosse il giusto pagamento, calcolato all’eccesso come ringraziamento per la gentilezza della donna.
Capitolo XXI
Uscirono, in giro nessuno. Le luci delle case e qualche raro lampione illuminavano la strada. Caricati gli zaini sulle spalle, presero a camminare in direzione del valico. A mano a mano che procedevano, scomparvero le luci del paese, e il percorso entrò nella penombra. Il chiarore che scendeva dalla luna si sostituì debolmente alla luce del paese. Raggiunsero una curva che nascose la strada ad eventuali curiosi. Si fermarono e piegarono non visti, per la campagna. La percorsero per una cinquantina di metri, poi diressero i loro passi indietro verso il paese che riapparve con le sue luci. Arrivarono a una certa distanza dalla casa della donna, dietro la quale si delineò la sagoma scura del fienile. Tra il fienile e la casa c’era un’aia, da questa, una scalinata portava a un ballatoio della facciata posteriore dell’abitazione, dove si apriva una porta, con accanto una finestra illuminata. Dal lato del fienile una scala di legno a pioli conduceva alla parte superiore dello stesso, diviso con un pavimento di legno dalla parte inferiore, dove si trovavano attrezzi agricoli di vario tipo e dimensioni, e uno stazzo per animali, che mostrava di non essere più utilizzato da tempo. La struttura dei fienili di campagna era la stessa ovunque, almeno in Umbria: tre pareti tirate su a mattoni e forati, con la parte anteriore aperta. Lo scopo era favorire la circolazione dell’aria perché il fieno potesse asciugare al riparo dalle intemperie, e nel piano a terra un riparo per gli attrezzi per il lavoro della campagna e per gli animali. Il soffitto di legno diventava pavimento per il piano superiore. Sotto gli attrezzi, sopra il fienile. Salirono sulla scala e trovarono un tappeto di fieno e paglia che a prima vista comunicò una sensazione di morbidezza e calore. D’altra parte la temperatura dell’aria in quell’ottobre mite prometteva un riposo accettabile, nonostante il riparo parzialmente all’aperto. Si crearono un giaciglio utilizzando i giacconi che avevano indosso e qualcosa che portavano nelle sacche. Subito dopo si coricarono per verificare l’impressione iniziale di un giaciglio accettabile. Lo era. D’altra parte avevano trascorso la notte precedente su una panchina della stazione di Narni scalo, dunque non potevano lamentarsi. Il fienile poteva essere considerato una sistemazione di lusso. Con quella sensazione positiva del giaciglio, contenti e rinfrancati per aver trovato come trascorrere la notte, allestirono sul davanti, in prossimità della scala, una tavola per il desinare, utilizzando un giubbotto. Vi misero sopra le residue provviste, più qualcosa di quanto avevano acquistato poco prima nel negozio. Si sedettero e consumarono tra un discorso e l’altro il cibo e un bicchiere del vino che era rimasto da Terni. Non erano al buio, perché dalla casa della donna filtrava, attraverso la finestra del ballatoio, una luce che bastava a illuminare parzialmente la loro postazione. Così in pace e nel silenzio della sera avvertirono sulla loro pelle che conquistare l’occorrente per vivere poteva essere tutto nella vita di un uomo, soprattutto in tempi difficili e sciagurati come quello. Mancava loro la famiglia, con quelli accanto, quel fienile diventava un albergo stellato. Era riservato ai benestanti il privilegio di non dover lottare per sopravvivere, così da poter dedicare il proprio tempo agli ozi della mente e del corpo: virtuosi o nefasti che fossero. Pensieri alati che Silvio e Zeno articolavano in parole semplici che si comunicavano l’un l’altro. Perché l’essenza del pensiero non ha bisogno di una forma erudita per dispiegarsi. Non così giravano i pensieri di Davide. Era inquieto, l’immagine di quella donna lo tormentava, cercava di non pensarci, ma gli apparivano ancora più conturbanti i tratti del suo corpo che la veste aveva lasciato intravedere. Improvvisamente, lui prima degli altri, avvertì un fruscio da basso e sportosi verso l’esterno, vide, veloce, una figura nel buio che risaliva le scale del ballatoio. La riconobbe, era la donna del negozio e sporgendosi ancora di più, notò, accanto alla scala a pioli, un fagotto. Scese e riportò sopra l’involto. Ben piegate, tre coperte di lana grezza. Si commossero e provarono in cuor loro una tenerezza infinita per lei. Dissero parole di ringraziamento alla sorte che tra tante brutture può riservare anche l’incontro con la bellezza, non solo fisica, ma quella più alta e assoluta dell’anima e se queste due cose si congiungono è il paradiso in terra. Ma per Davide quel parlare gli mise addosso un’agitazione, una sorta di frenesia che calava come un fuoco sullo stato d’animo che lo tormentava dal pomeriggio. Non si era mai sopito quello stato d’animo, e ora si riaccendeva con quel gesto che lei aveva avuto per loro e con quel parlare di poco prima circa la bellezza e l’anima e il paradiso. Mentre in Silvio e Zeno quei discorsi e sensazioni facevano pregustare il ritorno a casa, le persone amate da abbracciare ed amare, per Davide, solo, lontano da casa, quella donna apparsa nel viaggio con la sua bellezza e gentilezza dei modi e dei sentimenti, diventava l’unica certezza e desiderio. In quel momento non c’era altro cui potesse rivolgere il pensiero e il desiderio. La follia dell’infatuazione allo stato nascente lo convinse della necessità di una risposta a quel gesto del portare le coperte per la notte. Bisognava dire un grazie o fare qualcosa comunque. In realtà non poteva resistere alla voglia di dare un seguito al suo tormento. Così quando si sdraiarono sul giaciglio, e avvolti dalle coperte, si disposero ad accogliere il sonno riparatore, Davide aspettò il respiro pesante degli altri e circospetto si alzò. Discese la scala, attraversò l’aia e si fermò sotto il ballatoio. Dalla finestra filtrava attraverso gli scuri una luce discreta, meno intensa che prima, come se fosse stata spenta quella principale e si fosse accesa quella fioca di una bajour. Salì la scala, guardò oltre le persiane accostate e i vetri. La vide distesa sul letto, la notte era calda, un lenzuolo copriva il bel corpo, mollemente adagiato di fianco, una luce come un lumino, illuminava su di una parete l’immagine di Gesù e della Vergine Maria. Davide si beò nella visione di quella conturbante bellezza, per istanti che avrebbe voluto interminabili, ma che il decoro e la vergogna del gesto gli imponevano di non prolungare. L’educazione ricevuta, la sua natura, servirono a placare l’impulso selvaggio di andare oltre quella finestra. Si risolse a tornare al giaciglio che lo attendeva nel fienile. La visione notturna del corpo della donna avrebbe colorato i sogni della notte. Nello scendere dal marcapiano su cui era salito, mise un piede in fallo e cadde rovinosamente a terra. Non un gran rumore da svegliare i suoi compagni che non si avvidero di nulla, ma sufficiente per la donna che si alzò e andò sul ballatoio da dove proveniva il rumore. Lo vide a terra, si diresse verso di lui, che goffamente tentava di rialzarsi. Mentre lei lo aiutava, lui, rosso di vergogna, si affrettò a dire che non si era fatto niente. Quindi balbettò qualcosa per giustificare la sua presenza lì. Lei capì e provò tenerezza per quel ragazzo di bell’aspetto. Sorrise. Poi dal ballatoio dove lo aveva raccolto, senza dire niente, si diresse verso la porta di casa. Lui impietrito la seguiva con lo sguardo. Di lì a un attimo, sarebbe scomparsa, lui rimasto lì con la sua vergogna poteva solo morire. Ma lei non entrò, si appoggiò allo stipite e allargò le braccia verso di lui e sottovoce disse: vieni qui. Alla debole luce della notte Davide vide e sentì sul suo corpo quello di lei. Un momento che a lui sembrò eternità, poi lei si distaccò, accarezzò con rapido gesto il viso di Davide e rientrando in casa gli disse che era l’ora di dormire per tutti. Il ragazzo salì sul fienile e si dispose a dormire.
Albeggiò, si alzarono veloci, prepararono gli zaini, scesero da basso, e ripercorsero la strada tra i campi che avevano calcato la notte. Si ritrovarono sulla Flaminia all’altezza della curva che nascondeva il paese. Presero in direzione del valico, la strada era in salita ma non ancora impegnativa. Nel procedere, la carreggiata si fece via via più stretta e sempre più immersa in un bosco fitto di querce. Gli alberi ancora adorni di foglie dei colori dell’autunno, in parte cadute in terra, sì che la strada ne veniva tappezzata. Gli alberi con i loro rami intrecciati formavano una galleria sotto la quale si snodava il passaggio. Si era in Autunno e le foglie ormai diradate lasciavano intravedere il cielo, ma chi fosse passato lì d’estate si sarebbe trovato sotto una coltre impenetrabile ai raggi del sole, e la frescura avrebbe regalato un andare meno faticoso. Ma anche in quel giorno d’autunno la strada aveva l’aspetto di una galleria scavata nel bosco. Il sole non era comparso dietro i monti ma la luce progressivamente più intensa illuminava un cielo raro di nuvole. Nessuno sulla strada, silenzio intorno, interrotto dal flebile canto degli uccelli sugli alberi e dal rumore degli animali nella macchia che, in quell’ora del giorno, come gli umani, si disponevano chi all’azione e chi al riposo. La strada prese a salire sul fianco della montagna di destra quella ad est, dove più intenso era il chiarore, messaggero del sole in procinto di apparire. La consolare in quel tratto, era ancora come l’avevano costruita più di duemila anni prima, i legionari di Gaio Flaminio Nepote, prima che lui e i suoi perdessero la vita nella battaglia del Trasimeno contro Annibale. Forse sotto lo strato sottile d’asfalto c’erano ancora le pietre dell’acciottolato originario, ché tutte le vie consolari, per chiamarsi tali, lo dovevano avere, a distinguerle dalle altre bianche intorno, che si distaccavano dalla principale a formare il reticolo di comunicazioni che aveva permesso di governare la repubblica e poi l’impero. Nel procedere, la via abbandonava il bosco, avendo a destra la roccia della montagna e a sinistra un muretto che la delimitava dalla forra sottostante. Rari tratti rettilinei, continue curve che seguivano il profilo della montagna. Fatti alcuni chilometri si fermarono presso un fontanile coperto che doveva funzionare come ristoro dei passanti e abbeveratoio per gli animali da pascolo. Nel vascone si raccoglieva l’acqua, proveniente da un tubo di ferro, gelido al tatto per l’acqua sorgiva che irrompeva attraverso di esso nel vascone. Da una apertura del pavimento usciva l’acqua, bagnando il terreno intorno e la strada. Si fermarono. Erano partiti, appena svegli, alla chetichella per seguire le raccomandazioni della donna, ora occorreva mangiare qualcosa e si sarebbero dissetati con l’acqua della fontana. Si sedettero a terra su una radura in prossimità. Tirarono fuori dalle sacche del pane, tagliarono alcune fette di capocollo e un pezzo di pan pepato, il dolce che la donna aveva regalato loro. Divisero tutto per tre e mangiarono. Avevano proferito poche parole dal momento in cui si erano alzati sino a questo della sosta. Impegnati nella salita, avevano risparmiato le forze, anche se il tragitto per arrivare al valico non era lungo, meno di una decina di chilometri in tutto, ma progressivamente più duro. Si andava dai nemmeno 200 metri di Terni ai 700 del valico della Somma. Ora mangiando e bevendo scambiarono le prime parole: un accenno alla donna magnificandone la gentilezza e l’avvenenza e poi a parlare nuovamente di casa. Calcolarono che da dove si trovavano rimanevano un po’ più di 80 chilometri per arrivare a destinazione. Avrebbero dovuto attraversare le città di Spoleto e poi di Foligno, oltre a varie cittadine e paesi. Davide appariva tranquillo, quanto era successo la sera prima, dopo lo sconvolgimento iniziale, gli aveva lasciato uno stato di serenità che si leggeva sul viso. L’inquietudine che ci divora al pensiero di altro da noi che ci attrae, e che diventa desiderio irrefrenabile alla sua vista, nel momento della risoluzione catartica e dopo, si trasforma in serenità. Quell’abbraccio era stato tutto questo. Il turbamento e il desiderio culminati nella percezione su di sé di quel corpo di donna, esplorato dai sensi nelle sue sinuosità, incavi, sporgenze e indicibili delizie, era stato interrotto dalla carezza della donna che dolcemente lo aveva allontanato da sé. Frustrazione? Forse, per un attimo. Poi un sentimento nuovo, dove la carnalità si sublimava. Come per l’azione di un trigger che innesca una reazione nascosta e più deflagrante. Non più, non solo il piacere insperato che quelle braccia aperte, accogliendolo, gli avevano regalato. Aveva provato qualcosa che lo avrebbe potuto legare per sempre a quella donna. La carezza con cui lei lo aveva invitato a tornare a dormire, atteneva a quel sentimento oltre la carnalità che chiamiamo amore. Dunque era sereno perché sapeva di amarla e se lo sarebbe portato dietro quell’amore come una cosa immarcescibile. Certamente non l’avrebbe rivista più o chi sa, ma lei c’era, quella sera aveva sentito di amarla e gli bastava. Non gli era mai accaduto prima, doveva passare in quel paese per diventare uomo. Si alzarono, rimisero le cose negli zaini, se li posero sulle spalle e ripresero il cammino. Ancora tornanti in quella ora del mattino che aveva lasciato alle spalle l’alba e si avviava a decidere che giornata avrebbe regalato a quella parte di mondo. Non ci fu da aspettare. Da nord arrivò un vento freddo di tramontana che strappò dagli alberi le foglie morte e anche quelle in via di diventare tali. Ma tant’è, la forza del vento era più forte dei tempi lunghi della natura. Anche il vento era natura, ma talora gli elementi che la compongono si frappongono, cozzano tra di loro, sovvertono quello che appare il normale svolgimento degli eventi, così è anche della società umana. In questi guazzabugli si annida il cambiamento che diventa cosa nuova, magari progresso. È che, anche nell’incessante corsa dell’universo verso l’infinito nulla, accadono cataclismi che alterano il fluire suicida. Magari nuovi, altri, big bang, che daranno inizio a nuove storie. Quel vento che un dio aveva liberato, avremmo detto un tempo, era metafora di tutto questo. Forse gli dei sfrattati dall’Olimpo ci sono ancora, raccolti in qualche parte dell’universo, accanto a tutto quello che la mente dell’uomo ha saputo inventare nei millenni.