A metà di Corso Cavour, la via principale della città, davanti un edificio con porticato, che fu ospedale nei secoli passati, poi scuola elementare, ora ufficio comunale dell’urbanistica.
Il Gran Caffè Sassovivo.
Nel Novecento, ritrovo della buona società, frequentato anche dalle signore, per il tè del pomeriggio. In estate, anche fuori, sui tavolini del loggiato antistante.
Poltroncine in legno e cuoio, Il gioco degli scacchi, la grande specchiera liberty dietro l’enorme bancone in marmo e alluminio.
Da una porta, in fondo al locale, si entrava nell’ampia sala dei biliardi.
Aspiranti professionisti, giocatori per denaro, o più semplicemente nullafacenti, passavano le giornate tra un caffè e una spuma, fumando sigarette con dovizia, e sfottò e leggerezza, quasi sentimenti, verso compagni di sempre.
Oltre la sala giochi, da una porticina si accedeva al giardino interno, tra vecchie case, e al centro un rialzo del terreno che chiamavano la montagnola.
Vi si tenevano feste danzanti, con strofinamenti e tastate furtive, che lasciavano gote arrossate e fronti sudate, tumefazioni pubiche pudicamente coperte da improvvisati tovaglioli.
Gerarchie di personalità vivevano il gioco della vita, senza progetti.
Vitelloni, con mamme e sorelle a casa, senza voglia d’altra famiglia.
E le donne, le altre, avventure da raccontare agli amici, senza debolezza di sentimenti.
Kocis e Ciaravaglia, lu tasso di budino, e lu lupo, lu gufo, lu morto,lu…………………………………
Anni 50, la guerra della loro prima età alle spalle, era rimasto in bocca il suo sapore di provvisorio, e il cercar di guadagnare un altro giorno.
Sconosciuta la politica, l’impegno civile dei babbei, loro diversi, trasparenti e adamantini nel loro disinteresse, nobile e aristocratico.
L’estate partivano su 500 sgangherate, prima delle autostrade, destinazioni casuali.
Molto Riccione, memoria ancora viva degli svaghi estivi del duce di Predappio, lì vicino.
Stessa strada, non su alfa-romeo ma sulle prime utilitarie del boom: nuceria camellaria, helvillum, adcalem, forum sempronii, petra pertusa, fanum fortunae, ariminum, secondo la tabula pteutingeriana.
Città antiche che con nomi diversi si attraversavano ancora in quegli anni 50’, con sosta al Passo del Furlo, memoria vivente dell’altro, nel ristoro della saletta da pranzo e nella stanza da letto.
E poi quella casa in rovina nascosta da erbacce e piante spontanee come una vergogna storica da occultare, sul mare, in fondo a viale Ceccarini.
Ma loro non andavano al mare, se ne stavano al Jimmi o al Saviolino dove entravano a sbaffo in un momento di distrazione dell’addetto ai biglietti.
Cercavano donne da agganciare e avventure da raccontare.
Riccione delle straniere, con la voglia di mondo e di persone, che diventò una moglie svedese per lu lupo, e un viaggio in Turchia per kocis e ciaravaglia su una volksvagen malandata e scoppiettante. Al ritorno dopo mesi, al caffè, il racconto agli amici anelanti fu “ i turchi se morono de fame e fumano, i persiani vanno a lavora in Turchia ” rara sintesi sociologico-politica degli anni 50.
Ma poi Ciaravaglia si sposò e lu lupo rimase in Svezia accanto a quella donna bionda che sapeva di sogno, e lu gufo si perse, e lu tassu andò a Perugia a vendere Ferrari e Lamborghini.
Rimase lu Kocis.
Di notte, si sentiva passare in bicicletta per le vie del centro con il rumore alternante dei chiusini percossi dal lento incidere delle ruote.
L’incarico al Comune e le enciclopedie che vendeva andando per le case.
Il troppo catrame delle sigarette gli portarono via i polmoni.
Se ne andò con discrezione, senza clamore, quasi scontroso, come aveva sempre vissuto.
Al funerale la sorella e pochi altri, mi regalarono il suo cofanetto di pelle con i saponi, il pettine, lo specchietto, e la bottiglia dell’acqua di colonia.