A mio padre
Stava finendo l’inverno di quel 1957, forse l’anno della gran neve o era stato l’anno precedente, non ricordo. Bambino di quell’età, che precede immediatamente l’adolescenza, in un mondo duro ,ostile. L’essenziale per vivere , niente di più. Se fosse mancato appena qualcosa, sarebbe stata solo miseria dignitosa. Le scarpe con i ferretti per non consumare le punte, la maglia sulla pelle che graffia prima di adattarsi, mani e piedi freddi come la casa, al di fuori della stufa della cucina. Bambini cattivi che giocano alla guerra di cui era ancora nell’aria il sapore, il maestro che commina punizioni corporali, il catechismo duro che incita alle rinunce. Non vivevo di una vita mia , non era ancora il tempo dell’affrancamento, non ce n’era ancora traccia. La vita era quella della famiglia, mamma e babbo, un fratello più grande che si preparava per l’autonomia ma ancora, anche per lui era solo famiglia. Monade protettiva, piccola coorte nella battaglia quotidiana , io al centro, in mezzo, per non prendere colpi. Arrivò un vento avverso tumultuoso a cui non si poteva porre ostacoli e si portò via il babbo. Prima della fine, stilò in bella calligrafia l’elenco dei crediti da riscuotere. Se la mamma fosse riuscita a riprendere qualcosa, avremmo avuto i mezzi per sopravvivere. Poi se ne andò, e io non mi raccapezzai più, con fanciullezza da finire, adolescenza da iniziare, vita da vivere. Da allora, mi è compagno e certezza nel cammino, quel foglietto di carta ingiallito, con l’inchiostro disposto in bella forma, sempre con me in un angolo del portafoglio.