Testimoniare è raccontare di sé agli altri e prima di tutto a se stessi.
Ci raccontiamo attraverso una storia accaduta, che ci ha coinvolto, ci ha procurato dolore o felicità, comunque sentimenti forti.
Testimoniare è anche impedire al pudore o alla voglia di non esporsi, di nascondere la verità. Testimoniare talvolta è aprire uno squarcio sul velo che copre quel fondo di mortificazione e dolore, nascosto dietro un’apparenza di normalità.
Evitare di guardare giova al quieto vivere, ma toglie possibilità di modificare quello che non va, se non va, in noi e nella società.
Cimentarsi in questo esercizio virtuoso può però essere paralizzante e distruttivo, ci inchioda a quel momento e rende difficile vivere il presente e impossibile immaginare il futuro.
Gli altri, la società con cui dobbiamo fare i conti, ci imprimono addosso il marchio dell’accaduto.
Ci condanna a quella dimensione esistenziale.
Icona cristallizzata di un momento del fluire della vita, diventato, a volte per il protagonista, definitivo e mortifero.
Forse per questo gli ebrei sopravvissuti ai campi, per anni non parlarono di quello che era loro accaduto.
Pensarono a ricostruirsi una vita lontana da quel tempo e da quello spazio.
Alcuni sono diventati testimoni da vecchi, quando quello che potevano strappare alla vita era stato consumato, e sentivano il bisogno di raccontare per tutti quelli che per la sorte o l’età erano ormai andati.
Chi si sentì in dovere di testimoniare da subito, spesso ebbe più difficoltà a riprendere una vita normale, non riuscì mai a elaborare il lutto.
Aveva cessato di vivere allora, era morto dentro allora, portandosi dietro il senso di colpa del sopravvissuto.
Il raccontare per lui divenne alla lunga auto-distruzione, impossibilità di continuare a vivere, com’è accaduto a Primo Levi e ad altri meno famosi.