I vecchi e le case cadenti dei contadini in Umbria.

L’altro giorno passando sul lungo rettifilo che dalla stazione di Nocera scalo porta ai tornanti che raggiungono Nocera alta, ho rivisto quel grande casolare, a destra della strada, sopra il fiume Topino, e di fianco alle imponenti sostruzioni romane della Flaminia.
Tutto intorno, un ponteggio su cui carpentieri e muratori lavoravano in un’opera di restauro, meritoria.
Per anni la casa era andata progressivamente in rovina; crollato il tetto, avevano ceduto anche parte dei muri perimetrali.
L’abitavano due anziani contadini, sposi da tempo immemore.
Una volta c’erano stati anche dei figli, tanti, poi scomparsi nei gironi infernali della modernità.
Man mano che la casa si era andata sbriciolando, si erano rifugiati nell’unica stanza sicura, quella cui si accedeva dal portone d’ingresso.
Poi morirono e solo dopo la loro scomparsa franò rovinosamente il solaio di quella stanza che avevano abitato per ultimo.
Forse il dio Supunna, il dio Cupra e gli altri Dei che sovrintendono alla vita di quel tratto di Umbria avevano avuto rispetto e commiserazione dei due vecchi che non avevano più nessuno e che non potevano andare in nessun’altra parte.
Li trovarono nel loro letto abbracciati di un ultimo amore, prima di librarsi in aria per il volo della vita.
I casolari di campagna, in Umbria, cominciarono ad essere abbandonati con la fine della mezzadria, nel dopo-guerra.
La tipologia costruttiva era sempre la stessa: un piano terra, dove si aprivano le stalle degli animali, e un piano superiore abitazione degli uomini.
Una scala esterna collegava i due piani.
Mattoni e pietre, calce come legante, tetto di legno con coppi.
Furono costruite secoli addietro, costruzioni semplici e funzionali, che nella loro povertà proponevano moduli matematici e geometrie armoniche, tramandate da genti antiche e che il tempo avrebbe conservato.
Non avevano alberi intorno, ma una superficie piana lastricata con pianelle in terracotta per il lavoro; uno stazzo per gli animali domestici: polli, galline, oche, e la porcilaia.
Nelle stalle c’erano gli animali più grandi, i bovini, che servivano per il lavoro nei campi, per il latte, molto meno per la loro carne, troppo preziosa.
Il pagliaio, un invaso per il letame come concime, un pantano dove sguazzavano oche e papere.
Non sempre, accanto, troneggiava il fienile che serviva appunto per tenere all’asciutto il fieno.
Gli alberi non c’erano o in numero esiguo, perché non servivano al lavoro e alla vita, si prendevano nelle macchie per la legna da ardere.
Erano un abbellimento estraneo alla cultura dei contadini e poi piantare alberi avrebbe nascosto un progetto non coerente con il senso d’instabilità che la loro vita doveva avere.
Non erano i padroni della casa e di nulla, dunque non si dovevano legare, per essere pronti ad andare in altri casolari ove il padrone avesse deciso così.
In anni recenti alcuni casolari erano ancora abitati dai vecchi che non avevano seguito i figli nelle città del nord o all’estero.
Loro conservavano ritmi e tempi di una vita antica, regolata dal volgere del sole e delle stagioni.
Man mano che si invecchiavano parti della casa cadevano in rovina, e loro si ritiravano in spazi sempre più angusti.
I volti di cuoio cotti dal sole e dagli anni, i segni della dura fatica dei lavori della terra e degli animali.
Dopo il lavoro, il tempo accidioso lasciava quel senso di disagio che impercettibilmente li prendeva la sera, e che il vino delle lunghe veglie aveva sempre fugato.
Ora quella sensazione si era fatta più incalzante e il vino non era bastato più.
Ma il sentimento non arrivava allo stato della coscienza e d’altra parte non possedevano gli strumenti per analizzarlo.
Il mondo intorno era cambiato troppo in fretta, non si trovavano più, la fine della vita era tutt’uno con quella della loro casa.
Rare visite dei parenti, quella solitudine disperante portava con sé il vuoto della mente e del cuore.
E’ così che sono morti i vecchi di Nocera e tutti gli altri dei casolari umbri.