Il Manicheismo nella narrazione degli eventi storici
La storia la scrivono i vincitori. Ed è l’atto conclusivo delle guerre che da sempre hanno contrapposto moltitudini di disgraziati, costretti dietro bandiere diverse, ma con identico destino di sofferenze e morte. Quelle bandiere diverse ma simili nel proclamare ideali di giustizia, libertà, e tutto il corollario di nobili intenti che giustificano il massacro. Accadde con la “Grande Guerra”, tutte le classi dirigenti delle nazioni europee furono responsabili della carneficina, che solo il Papa e i socialisti italiani condannarono. Sarebbero dovuti essere tutti giustiziati alla fine del conflitto e invece non pagò nessuno, solo i perdenti con l’allontanamento dal potere. Su di loro si addossò la responsabilità di tutto. Mentre i vincenti rivendicarono i nobili motivi che li avevano guidati nella lotta. Solo che spesso gli ideali nascondono interessi inconfessabili e meno nobili. E quando questi non sono così nascosti e gli ideali sbandierati non bastano, si scomoda la finalità etica della guerra. La dimensione etica, dapprima in sordina, deflagra poi al momento della vittoria.
Prima del conflitto e pure durante lo stesso, non appariva essere così radicale. Magari i contendenti sino a un momento prima potevano anche essere alleati, o addirittura parenti. Si pensi ai regnanti d’Europa che sino al giorno prima della dichiarazione di guerra si scambiavano missive, rivolgendosi l’un l’altro con i vezzeggiativi coniati per loro dalla regina Vittoria. O nel caso della seconda guerra mondiale, si pensi a Stalin e Hitler. Si accordarono per spartirsi la Polonia, e il socialismo nazionale tedesco sembrò apparire ai sovietici più accettabile del capitalismo europeo e anglosassone, poi s’impegnarono in un massacro reciproco senza fine. Oppure nel trentotto a Monaco, i futuri belligeranti, francesi, inglesi, italiani e tedeschi, si sedettero tutti a un tavolo e trattarono da pari a pari con apparente soddisfazione reciproca, dinanzi alle richieste tedesche sui Sudeti. Strette di mano, riconoscimenti reciproci, atmosfera quasi cordiale. Ancora, Il fascismo italiano ebbe un’attenzione benevola da parte degli americani e anche dallo stesso Churchill. Si pensi all’accoglienza trionfale tributata al gerarca Italo Balbo, trasvolatore dell’Atlantico, da parte del popolo americano e delle sue autorità. O a Roosevelt che trattava con Mussolini per dissuaderlo dall’alleanza con la Germania e dall’entrata in guerra. Ancora al carteggio Churchill-Mussolini che, segretato, poi scomparve dopo la guerra. O al prestigio di cui godé il fascismo nel mondo arabo e in India.
Insomma, per dire che con questa gente che poi perse la guerra, e che portava avanti politiche e ideologie nefaste, molti, anche le democrazie occidentali parlavano, commerciavano, intrattenevano relazioni. Anche contro la Germania e il Giappone che, sin da prima della guerra avevano dato dimostrazione di una certa disinvoltura nel trattare i loro contenziosi con gli ebrei e con la Cina, non ci furono grandi levate di scudi. Se ne cominciò a parlare a guerra vinta, e non che prima non si conoscessero le stragi compiute. Ma furono trattate come inevitabili danni collaterali, come quelli che i futuri vincitori andavano commettendo in giro. Dalle bombe atomiche sulle città giapponesi, ai bombardamenti inglesi su quelle tedesche a guerra in sostanza finita. Per tutte, Dresda. O le inutili distruzioni come l’abbazia di Monte Cassino. Per non dire del “liberi tutti” dato ai soldati franco-marocchini da parte del generale Alphonse Juin, che fecero scempio nel maggio del quarantaquattro nelle piane di Fondi, di vecchi, donne e bambini.
Poi una volta conclusa la guerra, i vincitori riaffermando le motivazioni nobili e stendendo un velo su quelle meno nobili, si adoperano a esaltare la motivazione fondamentale: la necessità etica di quella guerra. Si elencano le malefatte vere o presunte del perdente: per tutte, la strage di migliaia di ufficiali polacchi a Katyn, attribuita ai tedeschi ma poi, di fatto, compiuta dai sovietici. Si tace invece sulle proprie e alla fine per evitare ogni discussione si conia la categoria etica del male assoluto che perseguivano i perdenti. Non c’è dubbio che nel caso della seconda guerra mondiale esistevano motivi per porre in una luce sinistra il comportamento delle dittature, ma applicare sul perdente tutti gli anatemi possibili, fa correre il rischio di un’errata e superficiale valutazione storica degli eventi. Per altro la condanna inappellabile, il marchio infame della storia sulla loro condotta da lì all’eternità, potevano essere attenuati se nel momento della sconfitta, preferibilmente un po’ prima, avessero abiurato, fatto atto di pentimento e sottomissione, e magari così avere salva la vita. Sì, perché l’iscrizione alla lista dei malfattori della storia prevede processi e condanne anche capitali.
È successo sempre nella storia, ce ne sono infiniti esempi. Nulla è cambiato eccetto una certa dose di cialtroneria e pressapochismo della modernità.La vedo ben riassunta nell’atteggiamento da cow-boy texano del generale Douglas Mac-Arthur che accoglie sulla sua nave, con fare sprezzante i plenipotenziari nipponici incaricati dall’imperatore di firmare l’armistizio dopo le bombe atomiche. E alcuni di questi, se non tutti, dopo aver firmato, fecero harakiri, prevenendo quanto sarebbe stato loro inflitto dai vincitori.
Per quanto riguarda l’Italia, la sconfitta dell’ultima guerra ha significato il crollo delle ambizioni di diventare una potenza europea al pari delle altre. Un male minore, perché analogo destino se pur non immediato è toccato a tutta l’Europa. È accaduto che le guerre del novecento hanno relegato l’Europa a un ruolo subalterno rispetto ai paesi che erano espressione delle ideologie dominanti: il liberismo capitalistico americano e il comunismo russo. Uno scontro titanico che la Germania ha combattuto sino all’ultimo, alleata a un’Italia zoppicante e un Giappone lontano ma pari alla Germania come grinta. Per il Giappone ci vollero due bombe atomiche su città inermi per farla capitolare. Per l’Italia bastò molto meno, ci pensò il re, lo stato maggiore, e la classe dirigente. Per la Germania non ci fu niente da fare e resistette sino alla fine, sino al suicidio di Hitler e solo dopo si arrese.
A guerra finita furono portate alla ribalta tutte le nefandezze che i perdenti avevano commesso, in proporzione a quanto filo da torcere avevano dato. Per l’Italia un occhio di riguardo, che pure in giro per la Jugoslavia, per l’Africa e altrove le sue mascalzonate le aveva commesse, di là dalla favola d’italiani brava gente. Più severi con i giapponesi che in Manciuria, in Indocina, in Cina non c’erano andati leggeri. Inflessibili con la Germania che se n’era passata con gli ebrei. Naturalmente necessarie e per certi versi virtuose le bombe atomiche americane, gli stupri, le violenze, gli omicidi dell’armata rossa in Germania, le violenze delle truppe franco-marocchine nel frusinate, o un’intera generazione di nati da stupri russi.
E le violenze dei vinti furono sanzionate dai tribunali speciali dei vincitori. Fu condannata e impiccata la classe dei gerarchi del nazismo, meno quelli che si sottrassero con il suicidio, come Hitler.Lo stesso trattamento fu usato con i giapponesi. Fu risparmiato l’imperatore Hiroito, furono condannati a morte politici e generali oltre a figure minori per circa mille persone. Di questi, coloro che collaborarono con i vincitori ebbero salva la vita. Da noi non successe quasi nulla, il lavoro cruento fu svolto dai partigiani con l’uccisione di Mussolini e la sua amante e dei gerarchi al suo seguito sul lungo-lago di Dongo. Per tutti gli altri responsabili ci fu il velo protettivo degli alleati e qualche processo celebrato si risolse in condanne leggere. Ci pensò poi Togliatti ad amnistiare tutti e non se ne parlò più. La mano libera fu concessa ai partigiani a danno dei non protetti, i soldati della repubblica di Salò. Su di loro furono celebrati processi non altrettanto benevoli, senza sconti di pena. Si fece quanto si riteneva fosse giusto fare, nel caso migliore. Spesso si dette sfogo al desiderio di vendetta per torti precedenti sofferti, altre volte a cieca violenza gratuita.
Però per quella nostra guerra, combattuta dal quaranta sino al quarantatré e poi l’altra a seguire sino al quarantacinque che portò lutti e distruzioni, i conti non sono stati fatti fino in fondo. Certamente pagarono il dittatore e la ristretta cerchia dei gerarchi vicini a lui, con la vita. Sugli altri responsabili scese il velo dell’amnistia. Sarà stato giusto così, consumare vendette e perpetrare odi, non aiutano a ricostruire un sentimento di concordia e identità nazionale, ammesso che da noi ci siano mai stati. Siamo un popolo diviso in bande armate da sempre, dalla caduta di Roma in poi. Non abbiamo mai fatto i conti con la nostra storia e da ultimo non li abbiamo fatti nemmeno con la guerra e il fascismo. Perché oltre il Duce e i gerarchi fucilati nel quarantacinque, c’era complice il pezzo di paese che aveva aderito al fascismo e ne aveva appoggiata l’entrata in guerra. La firmò il re, la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, e poi alla Russia; e prima, la legittimazione della deriva dittatoriale del governo Mussolini; e la guerra di aggressione in Africa, e contro la Grecia. Furono i vertici militari, consapevoli della nostra impreparazione, a dare seguito ai programmi bellici di Mussolini. E gli industriali del nord collaborarono con i tedeschi contro il dittatore che in zona cesarini aveva rispolverato il programma socialista degli anni venti. Tutta questa gente fu corresponsabile del disastro che la guerra ha causato, come delle scelte scellerate compiute dal regime a cominciare dalle leggi razziali.
Ma per tutti costoro non c’è stata l’iscrizione al registro dei malfattori. Fu il premio per essersi consegnati agli alleati in tempo utile. Loro abiurarono e si salvarono ma la criminale gestione dell’armistizio fu responsabile dei lutti e delle distruzioni che seguirono dal settembre quarantatré al maggio quarantacinque. Dichiararono guerra all’alleato di ieri, inaugurando la stagione delle stragi tedesche a danno della popolazione civile. Abbandonarono al loro destino centinaia di migliaia di soldati italiani in Jugoslavia, nelle isole greche, ovunque si trovavano a combattere insieme ai tedeschi. Furono uccisi in combattimento, o giustiziati in loco, trasportati prigionieri in Germania, dove ne morirono a migliaia. Il sangue di quei martiri, mai degnamente celebrato grida vendetta a carico di casa Savoia, del governo Badoglio e degli altri corresponsabili.
Sul sacrificio dei partigiani caduti per mano dei tedeschi e dei fascisti, si è costruita la nuova identità nazionale anche per opera di coloro che erano coinvolti con il passato regime. Per questa storia, continua a mancare un sentimento nazionale, anche per questa storia il sessantotto da noi ha significato le brigate rosse con il mito della resistenza incompiuta. E l’assonanza è forte con l’avventura di D’Annunzio a Fiume e la vittoria mutilata, ma questo è un altro discorso.
Ma il tema della giustificazione etica delle guerre non appartiene solo al passato. Il conflitto tra Russia e Ucraina e quello tra Israele e Hamas ne sono odierne esemplificazioni, con un’aggravante: la narrazione dei fatti è diventata subito materia di giudizio etico. L’invasione dell’Ucraina da parte dell’esercito di Putin ha avuto motivazioni economiche, geopolitiche, storiche, religiose, istituzionali, già descritte. Ma su tutte, la narrazione, da subito, si è spesa sulla giustificazione etica. Si trattava di difendere la santa madre Russia, custode dei valori cristiani e della tradizione, dal male dell’Occidente depravato, che voleva imporre la sua visione corrotta della società al popolo slavo al quale appartengono gli ucraini. Qualcosa del genere è accaduto in Palestina, dove sulle motivazioni di sempre si è imposta con maggiore radicalità la dimensione etica. L’islam nelle sue varie forme, da quello moderato a quello più radicale non tollera l’inclusione nelle sue terre di quel frammento d’Occidente che è lo stato d’Israele. Il terrore scatenato da Hamas nell’ottobre 2023 e la risposta di Israele ancora in atto, causa entrambi di lutti infiniti, hanno riproposto anche nell’attualità le categorie del bene e del male. La radicalità dello scontro ha coinvolto la società civile, in particolare delle masse arabe, arruolate nelle legioni del Bene con fede incrollabile, sino al sacrificio volontario della vita, al martirio come atto virtuoso. Per converso la sindrome di accerchiamento che vive Israele, evoca memorie dei tanti olocausti subiti nella storia, e quindi la necessità di risposte assolute in caso di attacchi. La bandiera del Bene contro il Male rappresentato dall’avversario s’innalza sui campi di battaglia. L’assolutezza quasi metafisica dello scontro ha reso sino a oggi impossibile una soluzione, come il prolungarsi della guerra, riconferma. Le conseguenze sono i morti in combattimento, le distruzioni, gli stupri, il sacrificio degli innocenti, sino alla barbarie assoluta.
L’informazione distorta e asservita all’uno e all’altro campo snocciola numeri e dati tutti finalizzati a evidenziare le nefandezze dell’avversario. E per questa via tende a promuovere lo sdegno e la condanna dell’altro, alla ricerca di un consenso che si traduca in nuove risorse finanziarie, militari, di legittimità internazionale per proseguire la guerra. Una spirale dove l’iniziale rivendicazione territoriale diventa un casus belli che nasconde l’obiettivo di un genocidio dell’uno contro l’altro. Evoca la contrapposizione storica tra islam e occidente cristiano. Oggi diventato scontro tra democrazie e autarchie, tra stati laici e confessionali, tra benessere e sottosviluppo, tra tecnologia avanzata e fornitori di materie prime.
Ancora non c’è traccia di una via per delimitare prima e spegnere poi il conflitto. In cielo hanno ripreso a galoppare i cavalieri dell’Apocalisse, non rimane che sperare nell’intervento del Paracleto.