L’ipocrisia delle motivazioni etiche delle guerre
La storia la scrivono i vincitori. Ed è l’atto conclusivo delle guerre che da sempre hanno contrapposto moltitudini di disgraziati costretti dietro bandiere diverse ma con identico destino di sofferenze e morte. Quelle bandiere, diverse ma identiche nel proclamare ideali di giustizia, libertà, e tutto il corollario di nobili intenti che giustificano il massacro. Solo che spesso gli ideali nascondono interessi inconfessabili e meno nobili. E quando questi non sono così nascosti e gli ideali sbandierati non bastano, si scomoda la finalità etica della guerra. La dimensione etica dapprima in sordina deflagra poi al momento della vittoria. Prima del conflitto e pure durante lo stesso non appariva essere così radicale. Magari i contendenti sino a un momento prima potevano anche essere alleati. Si pensi a Stalin e Hitler. Si accordarono per spartirsi la Polonia, e il socialismo nazionale tedesco sembrò apparire ai sovietici più accettabile del capitalismo europeo e anglosassone, poi s’impegnarono in un massacro reciproco senza fine. Oppure nel trentotto a Monaco, i futuri belligeranti francesi, inglesi, italiani e tedeschi si sedettero tutti a un tavolo e trattarono da pari a pari con soddisfazione reciproca dinanzi alle richieste tedesche sui Sudeti. Strette di mano, riconoscimenti reciproci, atmosfera quasi cordiale. Ancora, Il fascismo italiano ebbe un’attenzione benevola da parte degli americani e anche dallo stesso Churchill. Si pensi all’accoglienza trionfale tributata al gerarca Italo Balbo trasvolatore dell’Atlantico dal popolo americano e dalle sue autorità. Si pensi a Roosevelt che trattava con Mussolini per dissuaderlo dall’alleanza con la Germania e dall’entrata in guerra al suo fianco. Si pensi al carteggio di Churchill-Mussolini che, segretato, poi scomparve dopo la guerra. O al prestigio di cui godé il fascismo nel mondo arabo e in India. Insomma per dire che con questa gente che poi perse la guerra, molti, anche le democrazie occidentali parlavano, commerciavano, intrattenevano relazioni. Anche contro la Germania e il Giappone che, sin da prima della guerra avevano dato dimostrazione di una certa disinvoltura nel trattare i loro contenziosi con gli ebrei e con la Cina, non ci furono grandi levate di scudi. Se ne cominciò a parlare a guerra vinta, e non che prima non si conoscessero le stragi compiute. Ma furono trattate come inevitabili danni collaterali, come quelli che i futuri vincitori andavano commettendo in giro. Dalle bombe atomiche sulle città giapponesi, ai bombardamenti inglesi con il napalm su città tedesche, a guerra praticamente finita. Per tutte, i duecentomila morti in una notte di Dresda. O le inutili, immani distruzioni dei monumenti unici della storia dell’uomo, come l’abbazia di Monte Cassino. Per non dire del “liberi tutti” dato ai soldati franco-marocchini da parte del generale Alphonse Juin, che fecero scempio nel Maggio del quarantaquattro nelle piane di Fondi, di vecchi, donne e bambini. Poi una volta conclusa la guerra, i vincitori riaffermando le motivazioni nobili e stendendo un velo su quelle meno nobili, si adoperano a esaltare la motivazione fondamentale: la necessità etica di quella guerra. Si elencano le malefatte vere o presunte del perdente: per tutte, la strage di migliaia di ufficiali polacchi a Katyn, attribuita ai tedeschi ma compiuta dai sovietici. Si tace invece sulle proprie e alla fine per evitare ogni discussione si conia la categoria etica del male assoluto che perseguivano i perdenti. Per cui sul perdente si applicano tutti gli anatemi possibili, sino a quello assoluto che riassume tutti gi altri: i capi sconfitti andavano giudicati come sacerdoti della religione di Satana o del male assoluto. Per evitare la condanna inappellabile e il marchio della storia sul loro operato da lì all’eternità, avrebbero potuto, di più, dovuto, nel momento della sconfitta, preferibilmente un po’ prima, abiurare, fare atto di sottomissione, arrendersi con vergogna. Solo così potevano evitare il pubblico ludibrio e magari avere salva la vita. E’ successo sempre nella storia, dappertutto anche da noi, quando ci chiamavamo romani. Gli imperatori glorificati come Dei durante l’esercizio del potere, una volta caduti in disgrazia ed eliminati erano caricati di ogni nefandezza e la loro memoria cancellata o esposta al pubblico ludibrio. Un diverso trattamento si riservava talora a chi faceva atto di sottomissione come Cesare ad Alesia. Vinta la guerra, perdonò tutti i re galli, che fecero atto di sottomissione, addirittura li omaggiò e li lasciò sul trono, avendone fedeltà per lungo tempo. Vercingetorige fu più dignitoso, non si prostrò, ma comunque riconobbe la sconfitta e porse a Cesare la sua spada come segno di resa, ma questo non gli salvò la vita. Doveva essere soppresso per ragioni politiche, era il simbolo della ribellione delle popolazioni galliche, doveva essere soppresso, perché con lui si abbattesse anche la pretesa d’indipendenza. Ma in qualche modo ebbe il riconoscimento di Cesare per il valore. Fu trasportato a Roma e portato in trionfo accanto alla biga di Cesare, incatenato ma con catene d’oro. Riconoscimento al suo valore e a quello di Cesare che aveva sconfitto un tale portento. Poi la notte successiva alla celebrazione del trionfo fu strangolato nel carcere Mamertino. Fu esigenza politica, niente di personale, doveva scomparire per la grandezza di Roma. Nulla è cambiato eccetto una certa dose di cialtroneria e pressapochismo della modernità. La vedo ben riassunta nell’atteggiamento da cow-boy texano del generale Douglas Mac-Arthur che accoglie sulla sua nave, con fare sprezzante i plenipotenziari nipponici incaricati dall’imperatore di firmare l’armistizio dopo le bombe atomiche. E alcuni di questi, se non tutti dopo aver firmato fecero harakiri. Cosa che li fece innalzare di più spanne rispetto al pistolero texano. Per quanto riguarda l’Italia, la sconfitta ignominiosa dell’ultima guerra ha significato il crollo delle ambizioni di diventare un grande paese al pari degli altri d’Europa. Un male minore con il tempo perché analogo destino se pur in chiave minore è toccato a tutta l’Europa. Perché se si vuole fare una valutazione storica e non etica, la seconda guerra mondiale è stata il conflitto della vecchia Europa, già sconfitta nella grande guerra, con la potenza americana e russa, interpreti del capitalismo da un lato e del comunismo dall’altro. Uno scontro titanico che la Germania ha combattuto sino all’ultimo, alleata a un’Italia zoppicante e un Giappone lontano ma pari alla Germania come grinta. Per il Giappone ci vollero due bombe atomiche su città inermi per farla capitolare. Per l’Italia bastò molto meno, ci pensò il re, lo stato maggiore, e la classe dirigente. Per la Germania non ci fu niente da fare e resistette sino alla fine, sino al suicidio di Hitler e solo dopo si arrese. A guerra finita furono portate alla ribalta tutte le nefandezze che i perdenti avevano commesso. In proporzione a quanto filo da torcere avevano dato. Per l’Italia un occhio di riguardo, che pure in giro per la Jugoslavia, per l’Africa e altrove le sue mascalzonate le avevano commesse, di là dalla favola d’italiani brava gente. Più severi con i giapponesi che in Manciuria, in Indocina, in Cina non ci erano andati leggeri. Inflessibili con la Germania che se n’era passata con gli ebrei. Naturalmente necessarie e per certi versi virtuose le bombe atomiche americane, gli stupri, le violenze, gli omicidi dell’armata rossa in Germania, le violenze delle truppe franco-marocchine nella piana di Fondi, un’intera generazione di nati da stupri russi. E le violenze dei vinti furono sanzionate dai tribunali speciali dei vincitori. Fu condannata e impiccata la classe dei gerarchi del nazismo, meno quelli che si sottrassero con il suicidio come Hitler e Goebbels con la moglie e i cinque figli, e Goring, o qualcun altro che sparì nel nulla come Bormann. Lo stesso trattamento fu usato con i giapponesi. Fu risparmiato l’imperatore Hiroito, furono condannati a morte politici e generali oltre a figure minori per circa 1000 persone. Di queste condanne a morte per le figure giudicate meno compromesse e dimostratesi collaboranti con i vincitori, si mutò in anni di prigione. Da noi non successe quasi nulla, il lavoro “sporco” fu svolto dai partigiani con l’uccisione di Mussolini e la sua amante e dei gerarchi al suo seguito nei pressi di Dongo. Per tutti gli altri responsabili ci fu il velo protettivo degli alleati e qualche processo celebrato si risolse in condanne leggere. Ci pensò poi Togliatti ad amnistiare tutti e non se ne parlò più. La mano libera fu concessa ai partigiani a danno dei non protetti, i soldati della repubblica di Salò. Su di loro furono celebrati processi non altrettanto benevoli, senza sconti di pena. Si fece quanto si riteneva fosse giusto fare, nel caso migliore. Spesso si dette sfogo al desiderio di vendetta per torti precedenti sofferti, altre volte a cieca violenza gratuita. Però per quella guerra combattuta dal quaranta sino al quarantatré e poi l’altra a seguire sino al quarantacinque che portò lutti e distruzioni, i conti non sono stati fatti fino in fondo. Certamente pagarono il dittatore e la ristretta cerchia dei gerarchi vicini a lui, con la vita. Sugli altri responsabili scese il velo dell’amnistia. Sarà stato giusto così, consumare vendette e perpetrare odi, non aiutano a ricostruire un sentimento di concordia e identità nazionale, ammesso che da noi ci siano mai stati. Siamo un popolo diviso in bande armate da sempre, dalla caduta di Roma in poi. C’è stato il dominio temporale dei papi che ha ostacolato la normale evoluzione e sviluppo civile com’è accaduto nelle altre nazioni europee, c’è stato la storia di un paese che è stato terreno di conquista degli stati d’Europa sino a ieri l’altro. E le tante signorie, principati o repubbliche schierati con l’uno o con l’altro, confliggenti tra loro e mutevoli nelle alleanze con gli invasori e tra loro. Non abbiamo mai fatto i conti con questa storia e da ultimo non li abbiamo fatti nemmeno con la guerra e il fascismo. Perché oltre il Duce e i gerarchi fucilati nel quarantacinque c’era complice il pezzo di paese che aveva aderito al fascismo e ne aveva appoggiata l’entrata in guerra. La firmò il re, la dichiarazione di guerra alla Francia e alla Gran Bretagna, e poi alla Russia; e prima la legittimazione della deriva dittatoriale del governo Mussolini; e la guerra di aggressione in Africa, e contro la Grecia. Fu lo stato maggiore che preparò i piani di guerra e comandò l’invasione della Russia, consapevole della nostra inadeguatezza. E la classe dirigente degli industriali del nord collaborò con i tedeschi contro Mussolini che in zona Cesarini aveva rispolverato il programma socialista degli anni venti. Tutta questa gente fu corresponsabile del disastro che la guerra ha causato, come delle scelte scellerate compiute dal regime a cominciare dalle leggi razziali. Infine la criminale gestione dell’armistizio fu responsabile dei lutti e delle distruzioni che seguirono dal settembre quarantatré al maggio quarantacinque. Dichiararono guerra all’alleato di ieri, inaugurando la stagione delle stragi tedesche a danno della popolazione civile. Abbandonarono al loro destino centinaia di migliaia di soldati italiani in Jugoslavia, nelle isole greche, ovunque si trovavano a combattere insieme ai tedeschi. Furono uccisi in combattimento, o giustiziati in loco, trasportati prigionieri in Germania, dove ne morirono a migliaia. Il sangue di quei martiri, mai degnamente celebrato grida vendetta a carico di casa Savoia, del governo di Badoglio e degli altri corresponsabili. Sul sacrificio dei partigiani caduti per mano dei tedeschi e dei fascisti, si è costruita la nuova identità nazionale anche per opera di coloro che erano coinvolti con il passato regime. Per questa storia, continua a mancare un sentimento nazionale, per questa storia il sessantotto da noi ha significato le brigate rosse con il mito della resistenza incompiuta. E l’assonanza è forte con il D’annunzio a Fiume e la vittoria mutilata, ma questo è un altro discorso.