La strage di Nocera, una storia medioevale.
Erano anni di relativa quiete, quelli a cavallo tra il XIV e il XV secolo, per quella zona dell’Umbria. I tentativi dei secoli passati di predominio dell’Impero in Italia, da parte degli Ottoni e degli Svevi erano definitivamente naufragati. A parte alcuni centri vicini alla Toscana, più coinvolti nella politica antipapale di Firenze, le principali città umbre erano dichiaratamente guelfe, e dopo le lotte del secolo XIII, anche Perugia e Foligno avevano stretto un’alleanza robusta. In particolare da quando Andrea Fortebraccio, detto Braccio da Montone, condottiero, era diventato signore di Perugia e, Ugolino Trinci aveva consolidato il prestigio della signoria folignate. Con la benevolenza dei Papi il dominio dei Trinci sul territorio circostante si era consolidato a danno di Trevi, Montefalco, Nocera e altri Comuni della montagna. Ne soffrì particolarmente Spoleto, a dispetto della passata grandezza. Aveva espresso un re longobardo e si fregiava ancora del titolo di ducato longobardo, La sua diocesi era un’arcidiocesi e il suo vescovo un arcivescovo. Insieme a Benevento rappresentavano le ultime due roccaforti del dominio dei Longobardi in Italia. Ora aveva da combattere più casalinghe battaglie con le città vicine, in particolare Foligno, che gli contendeva da tempo il protettorato di Trevi, e che alla fine ottenne, grazie ai buoni uffici del Papa e dei perugini. D’altra parte un’abile politica di parentele aveva allargato l’influenza dei Trinci su tutta l’Italia centrale. Una della casata era andata in sposa a un Varano signore di Camerino, un’altra al signore di Lucca. Intensi i rapporti con la signoria di Firenze che in varie occasioni scelse gente di Foligno per ricoprire la carica di podestà e capitano del popolo e che vedeva nei Trinci i più accorti alleati di quella parte dei possedimenti papali. Il re di Napoli dovendo premiare con denaro e un feudo Fortebraccio che lo aveva servito come condottiero, chiamò il signore dei Trinci a presiedere la cerimonia. La città di Foligno era prospera di commerci e industrie e la felice ubicazione sulla strada che dall’Adriatico portava a Roma la rendeva strategica. Già prima al tempo della Foligno ghibellina, la città aveva conquistato fama e importanza per essere stato il luogo della fanciullezza di Federico II. La madre Costanza d’Altavilla, dopo il parto nella piazza di Iesi, a che non ci fossero equivoci sulla maternità della quarantenne imperatrice, aveva condotto il figlio a Foligno, dopo il battesimo nella chiesa dedicata a Francesco in Assisi. E Federico rimase sempre legato alla città della sua infanzia, sino a ritornarci nel 1240, per tenere in loco gli stati generali dell’Impero, si da fare della città una sorta di capitale di quella parte d’Italia. Altri tempi, ora la fedeltà al Papa appariva più redditizia e di pari passo cresceva il dominio dell’Abazia di Sassovivo. Centro monastico nato sulla terra donata da un barone tedesco, che aveva il castello e i possedimenti nella zona di Uppello. Nei secoli l’Abbazia aveva allargato la sua influenza oltre il territorio umbro, sino ad avere alle sue dipendenze la chiesa antichissima dei Santi Quattro Coronati nel rione Celio a Roma. Da anni l’abate della comunità era scelto dai Trinci, e ultimamente un cadetto della famiglia era stato nominato a rivestire quel ruolo. In questo contesto storico s’inserisce una storia dagli aspetti boccacceschi che ebbe epiloghi sanguinari come facilmente poteva accadere in quei tempi. Diverse sono le versioni di quella storia che vede protagonisti la casata dei Trinci e tal Pietro di Pasquale da Rasiglia. Questi era persona nata e cresciuta in quel piccolo centro della montagna folignate, costruito a ridosso della sorgente del fiume Menotre, che in molteplici rivoli bagna le case e si sostituisce alle strade. Nei tempi moderni dopo terremoti e abbandoni, tornato a grande splendore e proposto un po’ ampollosamente al consumo turistico come Venezia dell’Umbria. Ser Pietro non godeva di buona fama, arrogante e violento, non si era fatto ben volere dalla gente del luogo, ma aveva una virtù smagliante che riverberava su di lui una luce riflessa e lo rendeva accettabile e invidiato: una moglie bellissima che tutti si chiedevano come fosse stato possibile che avesse deciso di unirsi a quell’uomo. Forse le sue origini a Fratta di Montefalco, modeste rispetto al benestante signorotto di Rasiglia avevano giocato un ruolo importante. Fatto sta che nei frequenti viaggi verso Foligno, la capitale di quel territorio di montagna, non mancò che accanto ai tanti che ne ammiravano la bellezza, di lei si accorgesse anche uno dei Trinci. Secondo alcune fonti si sarebbe trattato di Niccolò Trincia, il signore della casata, secondo altri, il fratello di lui Corrado. Non passò molto tempo che la cosa tra di loro deflagrò, provocando il mormorio a mezza bocca della gente, che rimaneva limitato a un chiacchiericcio, data l’importanza della famiglia. Probabilmente a seguito di questa tresca, Sor Pietro fu nominato signore e castellano di Nocera, città che era sotto la dominazione dei Trinci. I nocerini non furono contenti del nuovo governo, per il carattere del personaggio e per le numerose gabelle che pose tosto sulle spalle dei cittadini. Si arrivò a una ribellione da parte del popolo che costrinse Pietro a rifugiarsi a Foligno, per evitare guai maggiori e, guarda caso, prese alloggio in una casa dei Trinci. La cosa tornò molto utile ai due amanti, che così poterono vivere la loro passione con più agio. Poi, anche per sopire le mormorazioni che in città si erano riaccese, Ser Pietro fu allontanato, e di nuovo reintegrato nella castellaneria di Nocera, senza che questo trasferimento ponesse fine alla storia tra i due amanti. Pietro dava mostra di ignorare la tresca che si consumava sotto i suoi occhi. I maligni raccontavano che facesse finta, che quel silenzio era il prezzo da pagare per la carica di castellano e i privilegi a questi conseguenti. Ma accadde che, a un certo punto, o perché stanco di quella cosa che non sopportava più, o perché ormai stabile nella funzione e nella carica che si era conquistato, o per un moto di dignità, o per dare sfogo alla sua natura violenta, ordì un inganno. Mandò messi ai tre fratelli Trinci: Niccolò Trincia, Corrado, e Bartolomeo, al loro cognato Berardo da Varano signore di Camerino, ai signori di Matelica e Fabriano, invitando tutti a una battuta di caccia nel territorio nocerino. Corrado respinse l’invito perché impegnato in manovre militari a Trevi. Terminata la battuta e consumato il lauto pranzo, alcuni degli invitati tornarono alle loro città, non Niccolò e Bartolomeo. Quando scese la notte Niccolò fu ucciso nel letto del riposo notturno, Bartolomeo al risveglio il mattino. Fatta la strage e finalmente vendicatosi, Ser Pietro si rivolse ai nocerini, rivendicando il delitto compiuto e presentandolo come un atto di liberazione della città dalla signoria dei Trinci, incitandoli nel contempo a resistere in caso di rappresaglie. La manovra ebbe un contenuto successo. Alcuni si preparano alla difesa, altri temevano troppo la forza dei folignati per schierarsi con chi non avevano mai amato e restarono in disparte. C’è di più, un nocerino imboccata con il suo cavallo la Flaminia diretto a Foligno per affari, lungo il percorso, nella zona di Valtopina, incontrò gente e raccontò la strage che si era perpetrata nella notte. Da lì la notizia non tardò ad arrivare alle orecchie di Corrado III Trinci che prese immediato contatto con l’amico perugino Braccio Forte braccio. Questi assicurò il suo appoggio e un forte esercito di armati si diresse a Nocera per correre in soccorso dei due malcapitati fratelli, sul cui destino c’erano versioni contraddittorie, e giuntivi cinsero d’assedio la città. Dopo un’iniziale resistenza da parte dei seguaci di ser Pietro i folignati riuscirono a penetrare oltre le mura e appresa la sorte dei due Trinci fecero scempio dei resistenti. Si diressero poi verso la torre civica, dove era asserragliato ser Pietro con la moglie e pochi armati. Vista l’impossibilità di difendersi e rimasta inevasa una proposta di resa onorevole, questi scaraventò la moglie e subito dopo se stesso nel vuoto, sfracellandosi sul selciato della rocca. Il suo cadavere e quello del padre Pasquale furono portati a Foligno e smembrati. Le parti del corpo appese alle porte della città. Con ciò seguendo un costume che era sovente rappresentato allora e anche in seguito, come alcuni anni dopo, a Firenze, dove i corpi dei Pazzi orrendamente sfigurati, furono appesi alle mura del loro palazzo, da parte dei Medici scampati all’agguato di cui erano stati vittime.