Gioele abitava nel borgo, in un vicolo stretto che collega corso Ippolito Borghesi a via Fulgenzio Petrelli. Le due strade decorrono parallele, dopo la loro origine dalla Flaminia nel tratto stretto in salita, in cui la consolare si impegna, prima di arrivare nella piazza principale del paese. Piazza dei martiri, a ricordo dei caduti della prima guerra mondiale , i nomi dei quali sono scolpiti sulla facciata del palazzo municipale sotto un’aquila arcigna che sa di un cielo incombente, gravido di sciagure per gli umani. La gloria celebrata dalle parole scolpite sotto l’elenco dei martiri è una gloria tutta umana , riparazione ipocrita degli scampati al massacro. Non parla alle loro anime. Avrebbero dovuto mettere un angelo al posto dell’aquila, sceso a raccogliere i resti immortali dei loro corpi martoriati e trasportali in cielo, per una gloria non più transeunte. Le due strade terminano in basso, a livello delle mura del paese. In quel punto si impegnano sotto due archi che danno passaggio alle persone e ai carri che entrano e escono dall’abitato e dalla campagna circostante. Questo era il paese di Sigillo nei primi decenni del 900 e nella casa a fianco del primo arco era nata e abitava mia madre. Una casa a tre piani come tutte le altre intorno , scale ripide tra un piano e l’altro, e piani striminziti di due stanze. Case povere che si sviluppavano in alto , come le case popolari dell’antica Roma . Esse si susseguivano senza soluzione di continuità a disegnare in alto le mura sottostanti del paese. Viveva lì la giovanissima vedova di guerra Angelina con le due figlie Regina e Ionia. C’erano anche due anziani coniugi: lui lo chiamavano Mazzarella, ma il nome vero era Fulgenzio Parbuoni , figlio di un garibaldino che aveva combattuto con il Generale per la liberazione di Roma, detto Premura. Da quella casa era partito una mattina all’alba il figlio di quei due vecchi , che era il marito della giovane vedova e padre di quelle due bambine . La moglie aveva 22 anni, le figlie tre anni una e un anno l’altra. Andava alla stazione ferroviaria di Fossato di Vico ,doveva prendere una tradotta militare che lo avrebbe portato in Trentino a fare la guerra. Non avrebbe voluto andarci , perché era un socialista, e in mancanza di una cultura che non era delle classi povere, quella fede politica gli diceva che quella cosa, che gli altri chiamavano lotta per l’indipendenza, era cosa da non fare. Ma partì e non fece più ritorno, il suo nome era Tarquinio Parbuoni. I due anziani sposi ne morirono senza darlo a vedere , in silenzio, con dignità. Le due bambine crebbero con qualche stento di troppo per il magro stipendio dell’Angelina, bidella della scuola elementare del paese, premio- risarcimento per il suo stato di vedova di guerra. La vita della gente si svolgeva in casa e, dopo il lavoro , e nei giorni di festa, nella strada, soprattutto nella stagione buona. Le donne sedevano su sedie impagliate davanti l’uscio e lanciavano nell’aria parole, richiami ,saluti, alle altre delle case accanto, come una grande famiglia che si riuniva sulle pietre levigate dello stradone. Gli uomini con la sigaretta in bocca diretti o di ritorno dalla piazza, gli adolescenti in continuo movimento, occhiate, e vagheggiamenti, a sognare incontri furtivi in qualche antro nascosto, sfuggiti alla veglia dei grandi. Gioele era diventato un bel giovane, alto, portamento nobile, composto. Le ragazze dello stradone se lo rubavano l’un l’altra con gli occhi, e sognavano di lui. Viveva con il padre in una casa del vicolo tra le due strade. Era nato dopo qualche anno dalla fine della grande guerra, la madre era morta presto di malattia, lui era cresciuto con il padre, bell’uomo anche lui, muratore come tanti di quel paese, lì e in giro per l’Italia. Gioele aveva fatto le scuole elementari sino alla sesta che era un specie di scuola media moderna. Poi era andato ad imparare un mestiere dai fabbri che davano il nome ad una zona del paese dove era impiantata la loro attività. Ma finito il lavoro tornava a casa e a vivere nelle strade intorno: tutto il mondo di allora. E le ragazze della via lo chiamavano , lo stuzzicavano , lo amavano in silenzio, perché più non si poteva. Avrà avuto 18 anni e la mattina quando usciva di casa per andare al lavoro, sentiva dentro una felicità assoluta. Era il benessere della sua età, era il turbinio dei sensi che percepivano i profumi ,i colori del mondo intorno a lui. E questi e le voci della gente, la brezza dell’aria , perfino la pioggia o la neve, gli arrivavano come messaggeri di stupefatta allegrezza, come promessa di più grandi e definitivi doni che la vita gli avrebbe riservato. Non aveva niente , oltre il sostentamento e l’amore del padre, e quel lavoro dai fabbri era duro e senza prospettive, ma sapeva ,sentiva che il meglio sarebbe venuto per lui e il suo vecchio, ormai acciaccato dagli anni e dalla fatica del lavoro. Cominciò a tossire che i campi stavano diventando verdi e le piante dischiudevano i fiori e la tosse si tinse di sangue. Uscì di meno da casa, poi non andò più al lavoro, infine non si fece vedere più. Si vergognava di farsi vedere con quel fazzoletto tinto di sangue con il quale copriva la bocca quando la tosse lo tormentava, si vergognava del pallore del viso, degli abiti diventati troppo larghi per la sua magrezza. Il padre accanto, disperato. Non c’erano ospedali o cure per quella cosa che si era portata via altra gente giovane in paese , non tanta come la spagnola di qualche anno prima, ma almeno di quella alcuni si salvavano, di questa, della tosse con il sangue non si era salvato nessuno. Qualche sciroppo il padre lo andava a prendere dal farmacista che gli raccomandava di portarlo via in montagna con l’aria buona e tanto mangiare . Ma non c’erano i soldi né per l’una ne per l’altro. Così mori Gioele, di tubercolosi all’età di 18 anni e il padre lo seguì appresso.